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Willy Hendriks

Categoria libro: Scacchi
Stato lettura: LIBRO CONCLUSO IL 28/05/2023
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Questo è un libro alquanto strano e quasi perturbante ma interessante per lo scacchista interessato non solo a saper giocare per vincere, ma soprattutto allo scacchista interessato alla dimensione culturale del Gioco degli Dei, dimensione culturale che a mio avviso ne è componente fondamentale per non sminuirlo allo stato di mero sport in cui conta vincere (e guadagnare, e apparire; perché questo è lo sport oggi), come mi pare che si stia ormai piegando nell'era dei motori.
Mi è piaciuto molto, ma perché è un libro a se stante, ovvero è (forse più che altro) un libro di filosofia. La mia formazione è la filosofia, per la precisione la filosofia analitica del linguaggio, quindi dove si muove questo libro è ciò che ho studiato, anche se ormai più di 20 anni fa, ma è per questo che mi è piaciuto.
L'oggetto di studio sono gli scacchi, ma il metodo, la base, i fondamenti e probabilmente lo scopo stesso sono filosofici: si parla di teoria della mente, teoria del linguaggio.
Lo reputo anche un bel libro di scacchi, nel mio piccolo ovvero persona che ha appena cominciato a studiare e giocare.
Leggo molte volte domande su se gli scacchi siano uno sport, un'arte o un gioco: be, il problema è che la domanda è errata. Dipende da come uno li prende.
Se ci vuoi fare soldi, diventano uno sport. Se ti ci vuoi divertire, diventano un gioco. Ma se vuoi possono essere anche un'arte, con la sua storia, la sua cultura (immensa), la sua bellezza.
Io adoro leggere, è la cosa che da sempre più mi dà soddisfazioni, e negli scacchi c'è un bel mondo di libri da scoprire, alcuni - come in questo caso - posso quasi esulare dal gioco vero e proprio, e ammetto che in questo libro dopo un po' ho iniziato a mettere in secondo piano gli esercizi; altri sono proprio libri di didattica, ma possono essere belli lo stesso e mi spezza il cuore a volte leggere commenti di gente che dice che i libri non servono a nulla, basta giocare, fare tattiche online e guardare video. MAI bisognerebbe dire che un libro non serve a niente, magari a livello di punti non servirà a nulla, e sapere spesso il nome di una variante d'apertura può essere ininfluente, del resto oggi si potrebbe anche studiare la relatività senza mai citare il nome di Einstein e nulla cambierebbe. La questione su se cambierebbe qualcosa o meno, ha vari livelli di risposta, e preferisco pensare che sarebbe così.
Hendriks non ha scritto, con questo libro, in manuale di insegnamento ma piuttosto un manuale di critica pedagogica mirante soprattutto a smontare il metodo maggiormente utilizzato in ambito didattico ovvero mostrare una posizione e derivarne le mosse come fosse le uniche possibili. La realtà, poi, è più generale e smonta molta metodologia didattica ben oltre il campo degli scacchi: critica il "coaching" in genere. Del resto è un filosofo, e per comprendere e apprezza bene questo libro è una cosa da tenere bene presente, anche se lui lo dice chiaro e tondo verso la fine: "Le due materie che ho studiato di più nella mia vita, scacchi e filosofia, sono ai due estremi. Gli scacchi si svolgono in sessantaquattro caselle, la filosofia abbraccia tutto. Dal punto di vista intellettuale, però, in un punto gli scacchi danno più soddisfazione: se hai ragione, vinci. In filosofia questa forte relazione purtroppo non esiste". Questo è un libro di filosofia, avente come oggetto gli scacchi, come procedura il metodo critico, come base la Filosofia Analitica. 
L'idea principale che Hendrils critica è che da uno schema si possano derivare, come da un calcolo puramente logico matematico, la sequenza di mosse che permette di "vincere", sia che ciò porti alla vittoria finale sia a una superiorità decisiva. La tesi con cui difende tale idea è la parte interessante del libro: il cervello non funziona così, il cervello non elabora schemi per poi derivarne quello funzionante, unico; il cervello immagina mosse e su queste si basa, spesso basandosi su mosse già giocate che riemergono alla memoria in maniera spontanea spesso involontaria. Una volta trovata la soluzione, la didattica prosegue creandone la giustificazione reinterpretando il processo e giustificando il ragionamento deduttivo, quando invece è prevalentemente induttivo o meglio istintivo.
La differenza, sebbene si possa dire che bene o male il risultato sia il medesimo (la sequenza vincente), è critica: è funzionale. E' ovviamente un discorso teorico che a chi non interessa la parte funzionale, teorica, culturale e didattica che attornia il mondo degli scacchi può sembrare irrilevante, ma lo è tanto quanto i mille discorsi che si fanno sul gatto di Schroedinger (ovviamente, però, sempre parlando di un gioco), paradosso interessante ma che difficilmente aggiunge qualcosa alla teoria della meccanica quantistica.
Questo è un libro che può affiancarsi, sebbene più scacchisticamente specifico, al bel Deep Thinking di Kasparov.
Mi piace la tesi per cui non è verbalizzabile il ragionamento sugli scacchi, ovvero che data una posizione questa non "parla", non può essere completamente descritta verbalmente la sequenza che da essa emanerebbe; mi è piaciuta perché mi ha ricordato i discorsi sul meta-linguaggio nella filosofia analitica e soprattutto, data la natura matematica degli scacchi, sulla meta-matematica e i teoremi di incompletezza di Goedel.
È un libro sugli scacchi sviluppato con occhio filosofico e psicologico.
Ho trovato una bella recensione di questo libro in un sito, pensate un po', di filosofia: scuolafilosofica.com (recensione peraltro critica - ad opera di Giangiuseppe Pili autore del libro "Un mistero in bianco e nero", libro che devo ancora leggere ma che è una disamina filosofica sulle ricerche effettuata sulla funzionalità della mente negli scacchi, quindi simile a - parte del - contenuto del libro qui recensito (EDIT: vi anticipo che se non l'avete ancora comprato, risparmiate i soldi del libri di Pili Mistero in bianco e nero per qualsiasi altra cosa, anche solo per sigarette, droga, puttane, trans, armi o carte Pokemon - saranno comunque spesi meglio!).
Cito una parte: "Hendriks mostra come il metodo di ricostruzione verbale a posteriori delle giustificazioni per le mosse sia perlomeno aleatorio: (1) nessuno pensa così e certamente i GM non arrivano alla mossa candidata mediante un fine processo di analisi “euclidea”, quindi (2) sembra perlomeno discutibile impartire lezioni che poi non sono di fatto traducibili in un sistema di gioco, anche perché (3) non esistono leggi di valutazione universale negli scacchi perché ci sono soltanto elementi “concreti” e contestuali; inoltre (4) è una tendenza universale del soggetto quella di razionalizzare a posteriori quanto non è stato in grado di capire del suo stesso comportamento". Questi quattro punti verranno poi smontati totalmente nell'articolo; e a ragione, direi, ma è l'impostazione del libri che lo fa interessante e lo stesso sito scuolafilosofica.com lo reputa, sotto questo aspetto, interessante, bello, e consigliato.
La ricostruzione verbale di una posizione è giustificabile, ma è giustificabile anche il percorso completamente inverso perché qualsiasi cosa può essere verbalizzata trovandovi un senso. Sotto questo aspetto prettamente teorico che spazia anche nel mondo della filosofia della mente, lo trovo un libro validissimo. Ho trovato quasi naturale che a un certo punto Hendriks taccia l'approccio "verbale" tipico della didattica scacchistica come un metodo tipico del "comportamentismo", disciplina psicologica che successivamente è stata superata (meglio: integrata, migliorata e rivista) dalla psicologia cognitiva.
Recentemente Wesley So ha volutamente pattato una partita a un torneo e in sede di post-intervista gli è stato mostrato come i motori dicevano che la sua posizione era invece vinta: lo si vede bene storcere la bocca perplesso, e subito dopo dà una risposta lapidaria dicendo "Oggi non ha più neanche senso guardare cosa dicono i computer, perché sono semplicemente troppo forti e le loro valutazioni sono inumane, quindi completamente irrealistiche" - Sono cruciali le parole che ha usato: "inumano" e "irrealistico". Non ha detto che i motori sono troppo bravi, fanno troppi calcoli: ha detto semplicemente che non ragionano come la mente umana, fanno calcoli differenti nella qualità e negli scopi, non solo nella quantità. Del resto un motore non deciderà mai di pattare una partita per scelta, le sue patte sono praticamente obbligate. Il metodo del motore è estraneo al normale funzionamento della mente di uno scacchista umano, tout court. In un torneo un motore non deciderà di pattare perché sarà una scelta sicura per mantenere un vantaggio; del resto non deciderà neanche di non partecipetare a un torneo perché ha perso gli stimoli, o perché non gli conviene facendo gli stessi guadagni seduto al computer in streaming. Ivan Sokolov subito dopo l'affermazione di So ha detto "Il motore del computer può dare un +0,50, ma se il giocatore non capisce la posizione presto sarà 0,00 o peggio": ovvero, è inutile guardare il vantaggio segnalato dal motore se non si capisce la posizione: quest'ultimo appunto è importante poiché il concetto di "capire la posizione" è proprio quello che Hendriks critica in questo libro. Le posizioni non parlano. Il nucleo del discorso resta comunque simile: Sokolov infatti non dice se la posizione è comprendibile, e del resto se così fosse - se la posizione "parlasse" - allora il ragionamento del motore non potrebbe non essere compreso. Wittgenstein disse che "Anche se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo": sarebbe un gioco linguistico completamente diverso. Alieno. E alieni sono i ragionamento dei motori. Noi ci prepariamo psicologicamente prima di una partita, patiamo la sofferenza fisica e psicologica del torneo, le nostre decisioni sono influenzate dalla paura o dal coraggio, potremmo avere mal di pancia, un po' di congiuntivite. Io ad esempio, novellino della scacchiera, patisco un problema: quando, anche se sto giocando bene, soffro una cattura o una perdita di posizione, vado nel panico e gioco peggio; d'altro canto, quando acquisto un vantaggio immediato magari con una cattura o una combinazione tattica, mi ringalluzzisco e parto alla carica, giocando comunque peggio. Per non contare che di solito gioco dalle 22 in poi quando sono sveglio dalle 6, ho lavorato in piedi tutto il giorno, ho la pressione alta. 
Come dice Giangiuseppe Pili nel libro "Un mistero in bianco e nero", analisi logico-filosofica sugli scacchi e la mente degli scacchisti: "Ma quanto è straordinaria la mente umana che riesce a raggiungere lo stesso livello di quel computer, senza milioni di partite nella memoria, senza un repertorio di aperture completo e che può, quando vuole, alzarsi per andare a prendersi un caffè?".
Di tutte queste cose l'umano deve tenere conto quando, a fine partita, nel suo studio con una birra in mano e le palle nell'altra, guarda l'analisi del motore e scopre che avrebbe dovuto sacrificare lì dove lui ha deciso di non farlo. Certo è, comunque, che i motori (Hendriks o meno) non sbagliano e la prova è l'incredibile livello raggiunto oggi dai giocatori di scacchi: è probabile che Carlsen spazzerebbe via tutti i grandi campioni del passato. Hendriks tira sicuramente l'acqua al suo mulino. Un esempio: critica la regola che se avanzano sulle ali, tu attacchi al centro; è chiaro che il sottinteso è "attacca, se possibile"! Hendriks non lo dice e così, ovviamente, la regola sembra non avere validità. Ma ha senso ragionare così? No, ma passiamola pure, il suo scopo - ripeto - è un altro, non criticare regole o farne di nuove, ma discutere della mente, del suo funzionamento, del ragionamento dell'essere umano che gioca a scacchi. Ricordiamoci che il connessionismo nacque non per, a partire dal cervello, creare un robot intelligente, ma il contrario: creare un robot intelligente (grazie alle reti neurali) affinché il suo funzionamento, osservabile quantificabile, ci aiutasse a comprendere la mente. 
Hendriks in pratica dice che l'umano è umano, "troppo umano", e che è facile fare l'analisi e a posteriori, negli esercizi è facile dire che questi parlano, a livello didattico è un'impostazione errata essendo creati ad arte e non parlano perché sono chiari, sono messi lì apposta ed è il docente a dire che parlano. Il cervello tuttavia funziona in maniera completamente differente, non emergono in lui parole o calcoli da un esercizio di scacchi, ma ricordi, istinti, emozioni. Da qui gli impappinamenti che spesso accadono agli scacchisti che fanno l'analisi verbale post-partita per i giornalisti, o le spiegazioni che i grandi giocatori di scacchi alla cieca danno del loro metodo ovvero che non vedono nella mente la riproduzione grafica della scacchiera, quanto piuttosto non meglio precisabili "linee di forza".
Un motore ragiona in maniera ferrea, e questa non è sicuramente una caratteristica umana. L'uomo è euristico.
Più studi hanno appurato come il calcolo alla base della scelta di una mossa, se avviene, è inconscio e nonostante tutto il Grande Maestro riesce in pochi secondi a fare la mossa migliore: a volte sbaglia, e questo è il limite che fa da risvolto alla medaglia del meraviglioso funzionamento del cervello umano. L'uomo deve saper prendere decisioni in fretta, e per natura queste decisioni diventano storia e la prossima volta influiranno sulle sue scelte, coscientemente o meno. 
Questa fondamentale differenza tra il ragionamento umano e quello delle IA è ciò che, come ho già detto, a mio avviso rende le partite delle IA perfette, ma quelle degli umani belle.
Il motore ha un bel cervello, ma noi abbiamo la mente.
Ci tengo a citare un paragrafo da "Manuale degli Scacchi" di Emanuel Lasker, che riassume un po' la situazione dichiarando che la "combinazione" nasce nella mente del giocatore come calcolo, però finito; è il Grande Maestro (il giocatore esperto, ovvero con ricordi a farne esperienza) che dalle molte combinazione si fissa su una in particolare che diventa la sua ossessione, a volte senza un perché: "La combinazione nasce nel cervello di uno scacchista. Lì molti pensieri vedono la luce - veri e falsi, forti e deboli, confutabili ed inconfutabili. Essi nascono, urtandosi l’uno con l’altro, e uno di essi porta via la vittoria ai suoi rivali. Un maestro pensa [così] ma con deviazioni e ripetizioni. Tuttavia, il punto importante da capire è che un’idea si impadronisce del maestro e lo ossessiona. La vede espressa e quasi rappresentata sulla scacchiera.".
In conclusione, mi sento di consigliare questo libro; è un libro di critica e come ogni critica tende a essere troppo critico verso determinati metodi didattici che, in maniera piuttosto contraddittoria, vengono spesso mostrati in una luce estremizzata allo scopo di poter essere meglio criticabili. Mi spiego: mi è capitato di leggere libri didattici di scacchi e premesse come quelle che Hendriks postula, ovvero che una posizione dovrebbe parlare da sé quasi come un ragionamento euclideo o sillogistico, in realtà non ci sono. Dubito anche che possano esistere. Nonostante tutto, le sue conclusioni sono interessanti e profonde ma, come ripeto, da un punto di vista prettamente culturale. Può essere che il libro sia criticabile, non ho una base per giudicarlo, ma sicuramente rimane un libro valido. Del resto negli esercizi che riporta Hendriks stesso dice che c'è una soluzione, no? In realtà, no. Difficilmente c'è una soluzione univoca, e spesso sono ad arte per confondere, ma una mossa migliore di altre c'è. Nè Hendriks può dire che i motori sbaglino valutazioni, visto che ormai sono imbattibili; a tutti però sarà successo di vincere partite utilizzando mosse criticate anche pesantemente da un motore (ma può accadere solo contro un umano). 
Ma quindi, cosa dice Hendriks? Cosa bisogna fare per imparare gli scacchi? Lui li paragona a imparare una lingua: il ragionamento ci sta, sono un vero linguaggio. Quindi bisogna studiare, ma se non lo parli non serve a nulla, e si può imparare anche senza studiare. Gli scacchi, per quel che ho capito, secondo Hendriks vanno giocati, poi studiati o contemporaneamente, perché lo studio non dice nulla se non vi è l'applicazione pratica, la "mossa" in ambito reale. Il "piano" (Cap. 13) non è teorizzabile nea pura teoria, il piano va fatto durante il gioco e ci penserà la mente, col suo bagaglio, a portarlo avanti, cambiarlo, riadattarlo o abbandonarlo. Studiare gli scacchi è imparare una lingua, non è come lo studio della matematica. 
Hendriks dice che non c'è alcun tipo di studio valido per gli scacchi? No. Non è così: Hendriks critica l'idea che ci siano dei principi generali applicabili sempre a livello di posizioni, ovvero l'idea che a partire dallo studio di determinate posizioni se ne possano derivare delle regole generale, quasi dei teoremi che poi potremo applicare in partita. Le sue parole sono "Possiamo scoprire le possibilità tattiche più promettenti solo sulla base della conoscenza tattica che abbiamo archiviata nella nostra memoria. Non ci sono scorciatoie per trovarle": di conseguenza gli scacchi vanno studiati, ma l'impianto deve essere differente. Innanzitutto, fare tattiche: da queste non si evincono trucchi, ma si fa esperienza ovvero memoria di situazioni, pattern, e simili; in secondo luogo, bisogna giocare, in modo da abituare la "visione spaziale" necessaria nel gioco degli scacchi, ovvero l'occhio e il cervello si abituano alla visione globale della scacchiera; in terzo luogo, bisogna analizzare le partite giocate, cosa che rientra alla fin fine sia nel primo sia nel secondo punto. Il bagaglio che lo scacchista accumulerà non sarà così di nozioni teoriche, bensì di esperienza pratica. Siccome spesso associa il gioco degli scacchi al linguaggio mi sento tirato in causa nel definire gli scacchi, come il linguaggio, un sistema olistico che richiede un metodo olistico di apprendimento, non posso non riandare coi ricordi ai tempi dell'università e al mio filosofo Donald Davidson con la sua teoria olistica del linguaggio ma non solo, una teoria e un modo di vedere le cose che ha portato novità in molti ambiti epistemologici e non solo e qui infatti trasportabile con le dovute modifiche. Si può dire che sotto questo aspetto, l'informatica avanza ci sta facendo si imparare molto sul cervello, ma più che altro, probabilmente, su come non funziona.
Ovviamente lo studio delle aperture aiuta moltissimo, lo studio dei finali pure, ma questi due ambiti sono comunque inclusi nel metodo iniziale: Capablanca, che non adorava molto lo studio delle aperture, quando affrontò Marshall e la sua novità oggi ancora validissima, l'Attacco Marshall nell'Apertura Spagnola, lo fronteggiò con mosse che un motore giudica perfette e lo sconfisse. Ovviamente c'è anche il talento personale, ma studiare un'apertura tout court se non hai fatto la visione non ti porterà a nulla se non a ripetere pedissequamente le mosse memorizzate fino all'inevitabile dramma finale. Bisogna partire dal concetto che l'uomo effettua scelte in maniera (non meglio precisata) euristica ovvero il suo ragionamento, il suo calcolo, non è cosciente innanzitutto, ed è influenzato dal suo bagaglio di esperienze, ovvero non è un calcolo puramente matematico-statistico come quello di un software ma è non-lineare; sotto questo aspetto riesco finalmente a comprendere, apprezzando questo punto di vista, il motivo per cui non mi era piaciuto questo libro di Claudio Negrini, incentrato più sul calcolo (il valore in punteggio dei vari pezzi, pedoni compresi, non è unico ma varia in base alla loro posizione sulla scacchiera, ad esempio), senza contare che ovviamente, come ho detto, quel libro è per giocatori più avanzati. Del resto non serve guardare solo agli scacchi, dove la natura calcolatoria è palese e quindi pare sottintendere che chiunque debba solo calcolare, come una moltiplicazione da fare a mente: un cacciatore che deve sparare a un cervo magari senza il telescopico e regolando per correggere la deviazione del vento, lo fa calcolando o "ad occhio"? E il giocatore di bocce? E quei pazzi del curling sanno che velocità tenere sugli spazzoloni per far accelerare o rallentare la boccia, sulla base di calcoli che fanno a mente al momento? Il samurai che taglia una mela al volo nel mentre che toglie la spada calcola a mente la velocità cui arriverà la lama e l'inclinazione da darle in base alla posizione della mela al momento del contatto?
Mi fa sempre pensare il fatto che in questi casi non vengano praticamente mai tirati in ballo in musicisti: cosa fa un pianista che suona la Ballata n.1 di Chopin, la Rapsodia Ungherese n.2 di Liszt, il Concerto per pianoforte n. 3 di Rachmaninoff, la Sonata Fantasia di Scriabin? Pensa nota per nota, ad ogni nota calcola i tempi per la successiva, dito per dito? E un organista che suona la Passacaglia e Fuga in Do min. di Bach? Il loro cervello il quel momento lavora in maniera calcolabile? La pratica didattica di uno strumento musicale è tipica, si effettua suonando. Non ci sono pattern lì.
Ci sono anche consigli molto interessanti anche per un principiante. Ad esempio, la sottolineatura sulle difficoltà umane a visualizzare mosse all'indietro, ad esempio per riposizionamento pezzi; o la "tensione in avanti", che spinge spesso il giocatore ad avvicinarsi alla scacchiera, incrementando così la già naturale concentrazione verso aree limitate della scacchiera perdendo di vista il contesto. Questi due sono naturali limiti umani che se da un lato sono negativi, facendoci perdere occasioni, dall'altro obbediscono al funzionamento generale del cervello di prendere decisioni anche senza calcoli. Cito una frase presente negli ultimi capitoli: "Quando un umano guarda una posizione, vede quello che già sa. Quando sottoponiamo la posizione al computer, ci mostra ciò che [non sappiamo e spesso] non credevamo possibile".
Il capitolo 9 "Consigli gratuiti" è magnifico, il libro in sé è allegro e divertente. Una bella lettura. Mi ha ricordato tantissimo Wittgenstein, il "secondo" Wittgenstein per quanto la distinzione tra primo e secondo la reputo labile, soprattutto in queste sue frasi: "La filosofia non è una dottrina, ma un'attività" - "Il nostro errore consiste nel cercare una spiegazione dove invece dovremmo dire: si giuoca questo giuoco linguistico" - "Non si tratta di spiegare un giuoco linguistico per mezzo delle nostre esperienze, ma di prender atto di un gioco linguistico" - "Ben presto le ragioni mi verranno meno. E allora agirò senza ragioni". Non per niente Wittgenstein usava spesso gli scacchi come metafora.
Hendriks dice spesso che imparare gli scacchi è come imparare una nuova lingua. Per farlo, ci sono principalmente due metodi: vai nel paese dove la parlano e ci vivi imparandola parlandola, oppure ti prendi una grammatica e un dizionario e ti impegni chiuso in casa. I risultati sono circa identici, ma chi l'ha studiata di quella lingua ti potrà dire molte più cose di chi l'ha solo imparata. Saranno cose ininfluenti a livelli di saper parlare la lingua, ma saranno proprio inutili? Sicuramente no.
Come gli altri libri ed. Le Due Torri, ci sono svariati refusi ma possiamo chiudere un occhio.
Si meriterebbe indubbiamente, oltre al massimo punteggio che do ai libri, la spunta "Plus" per finire nell'elenco dei migliori libri che consiglio, poiché la sua utilità va ben oltre l'ambito scacchistico arrivando alla divulgazione pratica di teorie della mente, se però fosse meno specifico perché il discorso generalizzazione sulla teoria della mente possiamo estrapolarlo, isolarlo, ma rimane non diretto. Possiamo dire che il titolo non sia un consiglio didattico, ma una descrizione di come il cervello dello scacchista, secondo l'autore, lavora: prima muove, e il pensiero razionale, la spiegazione verbale, ne è una conseguenza.
Volevo trasportare questa recensione, piuttosto lunga per essere solo tale, nel mio blog ma alla fine che cazzo mi frega, la lascio qua che non cambia nulla. Sottolineo anche che è stata scritta durante la lettura, quindi in molti punti può risultare non lineare poiché non faccio quasi mai revisioni.

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