Stato lettura: LIBRO CONCLUSO IL 16/02/2019 Voto:
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Le strade roventi popolate da orde di mendicanti, da cortei funebri, da bande militari tedesche che incedono con grande strepito, dai temuti Ussari della morte che sfilano in tutto il loro minaccioso splendore, da individui affamati e senza casa che si aggirano con espressione apatica, indifferente. Il gigantesco cantiere sulla Vistola dove gli operai – russi, ebrei e polacchi – si sfiancano assonnati e indolenziti, perennemente sovrastati dal fragore delle onde, dal rombo dei macchinari, dal ruggito delle voci che sbraitano in varie lingue.
È la Varsavia che accoglie Binyamin Lerner, reduce da nove mesi sul fronte galiziano nella fanteria dello zar. E più che mai deciso a sopravvivere, anche a prezzo della diserzione, a conquistare il suo destino in un mondo divelto dalle fondamenta: a contrastare, acciaio contro acciaio, l'inesorabile violenza della Storia. Una violenza che Singer (questo è il suo primo romanzo, pubblicato nel 1927 in yiddish) ha vissuto sulla propria pelle e nella quale – mentre seguiamo Binyamin dal vertiginoso caos di Varsavia a una comune agricola in Polesia e infine a Pietroburgo, cuore della Rivoluzione – ci sprofonda, letteralmente, con la prodigiosa maestria che i molti lettori della “Famiglia Karnowski” hanno imparato a conoscere.
Pubblicato anche nel 2015 da Bollati Boringhieri con il titolo “La fuga di Benjamin Lerner” nella traduzione di Marina Morpurgo, il romanzo riesce ad essere struggente ma anche divertente, grazie alla caratterizzazione dei comprimari, animati da una costante litigiosità smaccatamente yiddish, ricca di spunti comici. Ad emergere tuttavia, con una lucidità di giudizio disarmante, è il ritratto tragico e commovente di un uomo che rappresenta l’ebreo moderno, solo nell’universo, cosciente che il peggio dovrà ancora arrivare.
Binyamin è un apolide spirituale. Non ha patria, e questo è il suo problema. Un polacco non può esserlo perchè ebreo, nell'esercito russo non può essere russo perchè è un polacco, con l'arrivo dei tedeschi viene trattato da ebreo anche se lui non si sente ebreo, né gli ebrei hanno occhi di riguardo per lui. Così, da solo se non con se stesso, si muove in un mondo che è di una violenza e spregiudicatezza inaudite, tra compagni di lavoro violenti, amici volgari, militari bastardi, puttane ubriaconi e imbroglioni. E' un romanzo di una violenza inaudita che rappresenta un mondo che può uscire solo da un incubo. Quando con un suo conoscente arriva ad aiutare i rifugiati si muove in un paesaggio contadino in cui i campi sono disseminati di ossa, fosse comuni, cadaveri di cavalli vacche e pecore, fil di ferro, pezzi di vetro e di metallo, scheggie di granate, fucili rotti e cumuli immani di merda secca dove vi erano le trincee, coi bambini infestati dai pidocchi e che vanno persino a cercare nella merda delle bestie residui non digeriti di cui nutrirsi per non morire di fame. E' una visione di un paesaggio bellico che dai libri di storia non potrà mai uscire e qui invece ve lo trovate sotto i piedi. Agghiacciante. In un mondo così solo i bastardi possono sopravvivere. E la cosa peggiore è che in questo mondo, nell'ipocrisia che cresce sempre più fino all'angosciante finale, non si può non riconoscere il nostro stesso mondo.
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