Un romanzo breve, circa 70 pagine di una storia che riporta le solite tematiche di Pavese ma vivadio che lo fa. Pagine intense, emozioni fortissime, incomunicabilità totale e un divario immenso tra i sentimenti, i pensieri e le parole. Si parte dal narratore, solito alter ego di Pavese, e il suo amico Doro, amici d'infanzia ma comunque capaci solo di raccontarsi frivolezze o fare domande che rimangono senza risposta; poi compare Clelia, poi Guido, poi il Berti e ciascuno si ritrova murato nella sua impossibilità di dire qualcosa. Solo il narratore tenta di varcare questo muro con domande e interrogazioni continue che perlopiù rimangono senza risposta causandogli un disagio esistenziale persistente e riconosciuto. A un certo punto dice "Non era per me una novità che più di tre persone fanno folla, e nulla si può dire allora che valga la pena" ma è chiaro non serve essere più di tre, basta anche essere in due o persino soli con se stessi (e forse ancora si è in due - è possibile essere soli?), per non riuscire a dire ciò che serve. Ed è così che pure finisce il racconto: silenzio, nessuna comunicazione e solo molti dubbi e interrogativi senza risposta, il negativo assoluto.
Sarà la sua ammirazione per gli Stati Uniti, la loro cultura, la loro letteratura, la loro terra, ma ogni volta che leggo Pavese mi ritornano in mente Faulkner e Hemingway e perché no anche Steinbeck coi suoi contadini; non tanto nelle storie che ovviamente sono completamente diverse, qui c'è l'Italia e l'italianità, quanto piuttosto per motivi tematici introspettivi e la fallacia dei dialoghi, come pure la posizione di sé nel mondo.
Demerito invece per l'edizione: è quella Kindle di Amazon ed. Grendel, ed è piena zeppa di refusi che a tratti dà persino fastidio leggere.
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