Lat Evans è un ragazzo che vive nell'Oregon ma che decide di lasciare la famiglia per accompagnare come mandriano una mandria di bestie fino in Montana e là stabilirsi e cercare di avere successo.
ATTENZIONE: Le mie recensioni possono contenere indicazioni su trama e conclusione, il cosiddetto "spoilerare". Sapere come un libro finisce lo reputo ininfluente, quindi sappiatelo.
Ero convinto fosse la conclusione della trilogia dopo Il Grande Cielo e Il Sentiero del West - Invece non è così ma poben, è comunque un gran libro.
Quando Guthrie disse al padre di voler scrivere dei romanzi sulla frontiera, il padre di suggerì di creare personaggi che "vivono una contraddizione, contaminando un mondo che apprezzano per la sua purezza". Ancora più che nel Grande Cielo questo suggerimento viene usato da Guthrie come pietra miliare ma ne Le Mille Colline cambia di molto sia il contesto sia la tecnica. C'è più utilizzo del linguaggio a sottolineare i dubbi di Evans, i suoi scontri con se stesso e col suo passato, con la sua famiglia; allo stesso tempo c'è una chiusura del campo visivo che se nel Grande Cielo e nel Sentiero del West comprendevano panorami immensi, qua invece dopo le prime pagine col viaggio della mandria dall'Oregon al Montana, si chiudono nella cittadina-comunità dove Evans, scegliendo di continuo il dovere (il suo dovere, ciò che lui decide sia il dovere) contro il "cuore", contamina (come disse il padre di Guthrie) il mondo attorno a sé, dalle persone (Tom, Callie) agli animali (Sugar perde via via importanza fino a diventare, da amico per il quale morire, mero mezzo di trasporto lavorativo), al Montana vero e proprio che diventa un territorio economico, di crescita non personale ma di potere, e che vediamo in questo romanzo nella sua - troppo - veloce agonia, dalla scoperta alla sottomissione in una generazione, un'agonia di morte sopraffatto dalla civiltà che è, tuttavia, non eticamente connotata o giudica ma solo descritta perché ammessa come inarrestabile.
Un'altra perla di Guthrie, un'altra grande saga che lascia, ancora una volta, un grande amaro in bocca.
Un'altra visione negativa di Guthrie, ma dire negativa è forse anche troppo: Guthrie è disincantato, il cowboy diventa il fattore diventa la comunità diventa la voce politica e tutto ciò è descritto quasi come un inarrestabile processo evolutivo.
Non c'è ingenuità in Guthrie, non c'è sottinteso il motto del "torniamo alla natura" sventolato da un modaiolo col cane al guinzaglio; c'è il canto nostalgico di qualcosa che, nel momento stesso in cui è scoperto, è destinato a scomparire come un desiderio che finalmente si realizza lascia sempre e solo l'amaro in bocca, e posto per un nuovo desiderio.
Mi ricorda Redford nel finale di Corvo Rosso, quando alla domanda di Del Gue su dove sarebbe andato risponde "Il Canada, dicono che là ci sono ancora territori inesplorati". Non per l'oro, non per le pelli, non per i soldi o per fare carriera - come Evans - ma solo per trovare un altro mondo dove l'Uomo non c'è; la gran contraddizione è che, andandoci, ce lo porterà lui. I territori selvaggi chi li desidera li insegue ma li rovina nel momento stesso che vi giunge, Jeremiah Johnson vi porta la guerra con gli Indiani e la morte. Così Evans, che ama il Montana a tal punto che lo snatura e così lo distrugge.
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