mer 04/12/2024 | RSS | Menu

Appunti soggettivi di storia della Filofosia

Di seguito riporto tali e quali come redatti alcuni appunti di storia della filosofia scritti durante la lettura della “Storia della Filosofia” del Professor Emanuele Severino, ai tempi mio docente di Filosofia Teoretica alla Facoltà di Filosofia di Venezia. Questi appunti non sono un “bignami”: l’opera di Severino non è una mera storiografia, è un’opera filosofica, né più né meno, e così va intesa. Sia chiaro.A ciò va aggiunto il fatto che io ho scritto solo ciò che mi serviva, al momento, presumibilmente per qualche esame. Per cui non sono sicuramente obiettivi, né molto probabilmente saranno esenti da considerazioni errata, o incomplete.
La filosofia di Severino (l'insieme di concetti da lui espressi, poiché la filosofia non è una "creazione" di un soggetto) si incentra sul concetto di "divenire" così come formulato a partire da Parmenide (da cui il suo possente primo saggio "Ritornare a Parmenide") e portato avanti dalla filosofia occidentale. Tale concetto è formulato come "oscillazione tra l'essere e il nulla", concetto contraddittorio, la cui successiva esposizione porta alla grande contraddittorietà linguistica che struttura il nichilismo.
La sua disamina della storia della filosofia analizza il pensiero dei vari filosofi incentrandosi prevalentemente sulla progressione della concettualizzazione di tale struttura del divenire. L'opera è dunque particolarmente leggibile per la continuità evidente nel pensiero filosofico.
Questi miei appunti risalgono presumibilmente al 98/99.

TALETE

La filosofia originaria si rivolge al Tutto. Ma proprio per questo emerge un primo problema: qual è l’elemento unificatore del Tutto, ossia di tutte le cose diverse? Poiché il Tutto appare, allora tale elemento unificatore deve esistere. Ma qual è questo arché? Per Talete esso è l’acqua. La scelta è determinata da motivi sia chimici o biologici sia da reminiscenze mitiche (Omero: l’autore di ogni generazione è Oceano).Ma queste capziosità non devono sovrapporsi al fatto importantissimo che l’acqua di cui parla Talete non è l’acqua sensibile; quest’ultima è, infatti, solo una determinazione dell’Acqua. L’acqua sensibile, in quanto sensibile, è una tra le cose che devono essere riunite nel principio, nell’arché, e quindi essa non può essere l’arché stesso. L’Acqua di Talete è dunque una metafora che non riesce a sopportare il contenuto che dovrebbe esprimere. Un diverso non può essere il principio unificatore del diverso. Talete non riesce ad esprimere ciò che pensa. Inoltre, poiché dal nulla non si genera nulla, l’acqua non può essere il principio, poiché anche essa, in quanto particolare, sarebbe dovuta essersi generata dal nulla, poiché essa, in quanto principio, non ha oltre a sé niente.

ANASSIMANDRO

Questi motivi inducono Anassimandro a dire che l’arché è l’Apeiron, che significa “non limitato”, “non finito”, “non particolare”. Questo carattere di non limitatezza consente all’apeiron di essere la dimensione entro cui tutte le cose (il Tutto) sono raccolte e dalla quale provengono (e ritornano). In quanto l’apeiron contiene ogni cosa, allora esso contiene in sé anche ogni contrarietà. Esso è dunque l’originaria unità degli opposti. Nel mondo del divenire, invece, gli opposti non possono coesistere; sicché ogni cosa che sopraggiunge sopprime il suo contrario. Ogni nascita è prevaricazione, ossia ingiustizia. L’apeiron però non è solo l’unità originaria nella quale sono mantenute tutte le cose, ma è anche il principio che regola la generazione e la corruzione delle stesse. Se dunque il divenire da un lato è separazione dall’arché, dall’altro il divenire si mantiene all’interno dello stesso. Questo poiché l’apeiron è lo sfondo ultimo ed inoltrepassabile di ogni processo.

ANASSIMENE

Sennonché quello di apeiron è un concetto soltanto negativo. In cosa consiste dunque quest’identità del diverso, se non può comunque essere indicata come una cosa particolare (passo innanzi a di Anassimandro rispetto a Talele)?In Anassimene emerge la necessità di stabilire il soggetto di cui l’apeiron è predicato, mentre in Anassimandro “apeiron” era solo il soggetto della frase che ne poneva l’esistenza. Ebbene, il soggetto di apeiron è l’aria, ma non è questa l’aria sensibile, bensì essa è ciò che tutto avvolge, come un’anima. Anassimene inoltre sente l’esigenza di esprimere il modo della separazione dal principio, la causa efficiente, la quale egli la identifica nella condensazione e nella rarefazione dell’aria. La similitudine di Anassimene fra l’aria e l’anima rende esplicito un carattere implicitamente da sempre affermato: il principio deve essere cosciente e vivo. Seppur superando le confusioni di Talete, Anassimene continua a rappresentare l’universale col particolare. “Che cos’è l’apeiron” è ancora una domanda senza risposta.

Eraclito e Parmenide sono i primi a tentare di rispondere a questa domanda.

ERACLITO

L’apeiron è il non essere l’altro da sé, conclusione questa derivata dalla riflessione sul tema dell’identità degli opposti, sottinteso dal problema stesso dell’arché. “Tutte le cose sono uno”. Questa identità dei diversi è l’apeiron, come sappiamo. Eraclito per primo identifica l’apeiron: l’identità delle cose è il loro stesso esser diverse ed opposte. L’opposizione che racchiude ogni cosa e contemporaneamente la genera è Pòlemos (=guerra). Pòlemos è dunque l’apeiron stesso. La discordanza tra le cose è la loro stessa concordanza. L’apeiron si manifesta nel divenire, dove ogni discordanza e ogni concordanza giunge all’apparenza. Ma se la contesa è la legge unitaria del diverso, invece la sostanza unitaria è il fuoco. Se dunque da un lato Eraclito supera il fisicismo a lui precedente, dall’altro in quella stessa dimensione si mantiene. Ovviamente, però, il superamento è in questo caso più rilevante, essendo l’accento della ricerca più preminente sulla legge che sulla sostanza. La legge unitaria è detta da Eraclito logos che si offre all’ascolto di tutti. Il logos è però ascoltato da pochi, sicché in questo filosofo emerge per la prima volta la differenza tra verità ed opinione, tra filosofia e senso comune. Per la prima volta diventa esplicito il tema che la cura della verità è la legge fondamentale che deve guidare la vita dell’uomo; ossia, il tema del legame fra filosofia e vita.

I PITAGORICI

Pitagora introduce nella filosofia il numero, ossia i rapporti quantitativi esistenti tra le cose. Gli elementi dei numeri sono il pari ed il dispari, che costituiscono l’intero universo e formano l’opposizione originaria. Tali elementi inoltre scaturiscono dall’unità che entrambi li contiene. Abbiamo così una struttura che rappresenta quella stessa esplicitata da Anassimandro, Anassimene ed Eraclito: il principio comune che oltre ad essere l’unità è anche la causa della separazione e la dimensione in cui comunque si attua la separazione. Come Eraclito rileva che ciò che vi è di identico in ogni cosa è il suo non esser l’altro da sé, così Pitagora rileva che ciò che vi è di identico in ogni cosa è il suo essere un’unità. Le due tesi sono complementari. Anche in questo caso però il numero dei pitagorici non è il mero numero della matematica. Il simbolo è ancora una volta inadeguato.

PARMENIDE

Parmenide è il primo che afferma esplicitamente l’identità fra il Tutto (la physis) e l’essere. E l’opposizione che egli prende in considerazione è così l’opposizione suprema, quella fra essere e nulla assoluto, il niente, il non-essere. Per la prima volta si afferma il senso autentico dell’essere: l’essere non è non-essere, l’essere è ed è impossibile che non sia. Dunque esso non può divenire, in alcun modo. Il divenire dell’essere che ci è attestato dall’esperienza è dunque un’opinione senza verità. Se per Anassimandro il divenire stabilisce la Giustizia, poiché riporta le cose alla loro dimora (e lo stesso vale per Eraclito), con Parmenide la situazione si capovolge, e il divenire non diventa solo l’ingiustizia suprema, ma la stessa non-verità. L’ingiustizia non può nemmeno accadere. Parmenide afferma per la prima volta che dal nulla non si genera nulla, ma allo stesso tempo, poiché nulla in realtà si genera, toglie validità a quello stesso principio. Né dal nulla né dall’essere si genera alcunché, perché nulla può generarsi. Se i testi che ci sono rimasti non attestano la negazione del molteplice, tuttavia il modo in cui Parmenide attesta il senso dell’essere permettono di trarre quella conclusione. Infatti, ogni cosa determinata, proprio perché è determinata, non è l’essere, ossia (non) è nulla. Ossia non è. Il senso dell’essere nega dunque la realtà di quel molteplice e di quel divenire di cui doveva dar ragione. Parmenide nega dunque e che la physis sia stoicheion (=elemento unificatore del molteplice) e che la physis sia arché (=principio e termine del divenire cosmico), caratteri questi della physis così come intesa già dai primi filosofi. Il mondo in cui viviamo non ha verità, che vuol dire: non è.

ZENONE

Discepolo di Parmenide. Escogitò delle argomentazioni volte a mostrare la non verità del mondo del senso comune. Il molteplice si presenta innanzi tutto come finito, poi come divisibile. Ma il divisibile è divisibile all’infinito. Ma la dicotomia (=divisione) infinita del finito non ha fine, è infinita. Ossia il divisibile non ha alcuna grandezza: non è. Lo stesso procedimento può essere applicato al divenire: una freccia per giungere da A a B deve passare per B’; ma anche per B’’, poi per… sicché essa non riuscirà neanche a spostarsi da A. Resta comunque che la contraddizione più potente è quella attestata da Parmenide: l’essere è non essere.
Il problema consistente nel determinare quale sia l’elemento unificatore del molteplice e il sostrato del divenire è risolto da Parmenide eliminando i termini stessi del problema: molteplice e divenire. E tuttavia ESSI APPAIONO. Dopo Parmenide la filosofia si rende conto che molteplice e divenire sono due realtà incontrovertibili ed innegabili. La verità si pone in contrasto con se medesima: da un lato è RAGIONE (l’E non è n-E), dall’altro è ESPERIENZA (l’E è n-E). Dopo Parmenide, la filosofia tenta di conciliare i due lati, reinterpretando il senso della physis alla luce del senso dell’essere come attestato da Platone.

EMPEDOCLE

Il divenire cosmico è, ma in esso nessuna cosa si genera dal nulla. Il divenire si attua cioè all’interno dell’unità originaria dell’essere, intendendo l’essere come una pluralità di elementi originari che, trasformandosi, componendosi e separandosi, costituiscono di volta in volta le cose divenienti. Gli elementi che costituiscono ogni cosa sono l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco. La forza che li tiene avvinti nell’unità originaria è l’Amicizia, mentre la forza che li divide dando origine al divenire cosmico è la Contesa o Discordia. Il divenire è quindi inteso in termini di mescolanza e separazione. Ora, dunque, è esplicitato il tema che nel divenire non solo gli enti non si generano dal niente (o vi si corrompono), ma il loro stesso divenire non può essere determinato dal niente.
Critica: ma se le radici si trasformano continuamente nei vari elementi dell’universo, allora esse non sono eterne, come invece dovrebbero essere in quanto princìpi. Inoltre, il ferro è qualcosa di unico in sé che non può essere ridotto alla somma di quelle quattro radici.

ANASSAGORA

Proprio per questo occorre dire che l’essere è tutte le qualità che formano l’universo. Solo così si riesce a spiegare la generazione (non dal nulla!) di tutte le cose. Tutte le cose preesistono nell’unità originaria; e poiché ogni ente può diventare qualsiasi altro ente, allora in ogni ente è contenuto il Tutto. Anassagora ha però presenti gli argomenti di Zenone, sicché egli postula una quantità non divisibile come materia di ogni cosa: le omeomerie (=parti simili), che dunque sono l’essere, e quindi sono eterne, ingenerabili ed incorruttibili. Il divenire dei fenomeni è dunque la “visione delle cose nascoste” ossia delle eterne omeomerie; non è la nascita e la morte dell’essere. Anassimene aveva capito che il principio del divenire doveva essere “cosciente e vivo”: ebbene, Anassagora lo sa, e per questo postula la Mente (Nous), l’attività discriminante e disvelante che conoscendo tutto ha la potenza di raccogliere o di disperdere le omeomerie. La Mente è lo stesso Logos (e quindi Pòlemos) di Eraclito.

DEMOCRITO

L’atomismo parte dalla consapevolezza che il molteplice implica il non -essere. E prima ancora dall’innegabilità del molteplice attestato dall’esperienza. Per questo l’atomismo si trova indotto ad affermare che il non-essere è. Dal punto di vista di chi, come Democrito, ritiene che i fenomeni siano il criterio del conoscere e che non vi siano altri fenomeni oltre le cose sensibili, l’essere è il pieno, ossia ciò che esteso e solido, e il non-essere è il vuoto, ossia la pura estensione non riempita. Il vuoto divide la compattezza del pieno in una molteplicità di parti, e quindi è ciò che rende possibile il molteplice. Come Anassagora, per salvare i fenomeni minati dagli audaci paradossi di Zenone Democrito deve escludere che essi siano infinitamente divisibili. Occorre dunque dire che i fenomeni sono in ultimo costituiti dagli atomi (=non divisibile, appunto). Gli atomi sono l’essere, così come concepito da Parmenide. Il divenire va dunque interpretato come un movimento di atomi (Democrito è qui vicino alla concezione delle omeomerie anassagoree). Con Democrito compare sul teatro della filosofia il materialismo, ossia la concezione secondo la quale non esiste altro essere oltre a quello da cui lo spazio è riempito.
Contrariamente ad Empedocle, o ad Anassagora, per Democrito il divenire non ha nessuna causa: gli atomi si muovono solo perché colpiti da altri atomi. Esso non ha quindi neanche bisogno di una Mente, e quindi il divenire non ha scopo.
Il conflitto tra la verità della ragione e la verità dell’esperienza sottolinea un aspetto fondamentale: la distinzione tra ESSERE ORIGINARIO ed ESSERE DERIVATO. Ma intanto, l’affermazione atomistica che il non-essere è getta nello scompiglio il cardine principale della ragione: il non ancora formulato pdnc. Si arriva così alla sofistica.

I SOFISTI:

Con i sofisti (=sapienti) la riflessione filosofica si sposta sull’uomo che conosce e sul valore della sua conoscenza. Eraclito, Anassagora e Democrito avevano già formulato le tesi che le cose si trovino in una continua opposizione e che anche il non-essere è. Ciò basta ai sofisti per affermare che l’essere non si mostra nella verità, ma nelle discordanti opinioni degli uomini, fatto questo validato anche dalla gran varietà di dottrine filosofiche. Con la sofistica emerge per altro un tema importantissimo: l’abbandono della verità in cambio della potenza sulle cose. Il logos della verità è così soppiantato dalla tecnica del linguaggio.

PROTAGORA
Protagora decide di abbandonare la ragione per tenere ferma l’esperienza (contrario a Parmenide) affermando il carattere antinomico della ragione. Il logos (la ragione) è essenzialmente in contrasto con se medesima. Ma non solo la ragione filosofica, bensì ogni conoscenza umana: leggi etiche, politiche, le arti umane… Una verità valida per tutti non c’è, e l’unico canone di misura è l’esperienza di ogni singolo uomo. Nessun fenomeno è più vero degli altri. L’uomo è misura di tutte le cose.

GORGIA
La conciliazione di ragione ed esperienza è impossibile, e l’unico risultato cui si giunge è che nulla esiste. Infatti, il mondo fenomenico è negato dalla ragione, mentre l’essere è negato dall’esperienza (“non esiste nulla”). Se due fenomeni sono eterogenei, l’uno non può diventare il criterio assoluto in base al quale giudicare l’altro; così la ragione non può giudicare l’esperienza, e viceversa. Quindi non hanno validità assoluta né gli oggetti conosciuti dall’esperienza né quelli conosciuti dalla ragione (“se qualcosa esiste, è inconoscibile”). Infine, anche concependo che esiste una verità assoluta, essa sarà incomunicabile, perché il linguaggio è eterogeneo rispetto alle cose di cui parla (“se qualcosa è conoscibile, è incomunicabile”). Col tramonto della verità, le azioni dell’uomo non trovano più niente che le regoli (vd. Eraclito), sicché ogni decisione diventa arbitraria, e diventa inevitabile il rivolgersi agli istinti ed alla forza.

SOCRATE

In Socrate la critica dei sofisti alla verità diventa critica ai sofisti. Infatti, “so di non sapere” acquisti un carattere positivo, che ristabilisce un nesso con la verità. Neanche la critica sofistica alla verità ha dunque verità. A Socrate è cioè presente l’idea di verità. “So di non sapere” e così una verità certamente povera, ma che si dispone a diventare ricca. Socrate non ha trovato il sapere che cercava e che gli mancava, ma ha stabilito alcune regole fondamentali per la ricerca della verità a lui posteriore. La prima egli l’eredita da Gorgia: il linguaggio è eterogeneo alla verità, la quale non può dunque essere appresa dall’esterno. Se qualcuno scopre la verità, è perché egli l’aveva già dentro di sé. La tesi di Gorgia non serve dunque a dimostrare che la verità non esiste, ma che essa risiede in noi stessi. La maieutica (arte dell’ostetricia) è appunto la tecnica che aiuta a scoprire i se stessi questa verità. La seconda regola socratica è che ogni conoscenza a lui conosciuta non è assoluta perché non riesce a stabilire il significato preciso del suo oggetto. La domanda “che cos’è” non trova mai risposta, e questo è dovuto al fatto che non si sa ancora definire l’universale, se non tramite qualche particolare. La definizione dell’universale “bene” è, infatti, indicata di solito in una determinazione di tal bene, ad esempio in un’azione buona. Mentre il bene in sé non è un’azione buona, né nessun altra cosa buona, bensì è ciò che permette di dire che quella tale azione è buona. La verità può essere data solo se si definisce l’universale. La verità può essere solo concetto: una struttura di concetti. Per Socrate, la verità è essenzialmente connessa al bene: quindi chi conosce la verità conosce il bene, ed agirà sempre di conseguenza (Intellettualismo etico). Per Socrate, cioè, non è possibile che la decisione si distacchi dalla verità, ad esempio che chi conosce il bene faccia tuttavia il male (Volontarismo etico). Di conseguenza, si agisce male perché non si conosce la verità, e perché non si sa cos’è il male. Chi agisce male non lo fa dunque perché sa cos’è il male, ma perché pensa che, in qualche modo, quel male sia un bene. Con Socrate, la filosofia ribadisce nel modo più esplicito il rapporto tra la verità e la vita. Ma come può agire chi ancora non è nella verità? Seguendo il Demone, che la voce della fede, scaturente dalla cultura in cui vive: la società, la letteratura, la filosofia stessa.

PLATONE

La dottrina del concetto socratica è per Platone basilare. Infatti, egli pensa che l’affermazione che il Tutto è concetto permetta la distinzione tra il sentire e il pensare, ossia tra il campo della ragione e quello dell’esperienza, sicché solo in questo modo le due dimensioni possono essere armonizzate. Ma in che rapporto sta il contenuto del concetto con il contenuto delle conoscenze non concettuali, ossia con le cose particolari? Innanzi tutto, Platone sottolinea il fatto che, mentre il primo è costante – la grandezza in sé non è mai o più piccola o più grande – il secondo può variare nel tempo – una cosa grande può ad esempio diventare piccola. Chiamato idea il contenuto del concetto, Platone afferma quindi che mentre gli enti particolari sono divenienti e mutevoli, l’idea è immutabile ed eterna, e quindi è l’essere per eccellenza. L’idea è quindi l’apparire dell’essere stesso nel suo carattere intelligibile, ossia concettuale. L’idea è pensata/concepita, non è sentita; essa è, infatti, un significato. E poiché le idee sono tante quanti sono i concetti, allora esse formano un mondo intelligibile, alternativo al mondo sensibile degli enti. Infatti, l’idea non è soltanto pensata, ma esiste realmente (ricordarsi la tesi hegeliana: identità immediata di certezza e verità. Secondo Hegel, per i greci l’esistenza esterna della realtà è ovvia). Il mondo delle idee (intelligibile) è l’iperuranio: ciò che sta al di là (hypér) della volta celeste (ouranòs), la quale racchiude l’intero mondo sensibile.
L’idea costituisce pertanto l’essere del mondo sensibile; il secondo è solo in virtù del primo. In questo modo Platone riesce ad operare quella conciliazione di esperienza (mondo diveniente) e ragione (essere eterno) che aveva assillato i filosofi posteriori. Quando un ente si genera, tutto il suo essere preesisteva già; quando si corrompe, tutto il suo essere continua ad esistere. Nulla viene dal, e ritorna al nulla. E’ importante notare che Platone si sofferma poche volte sulla questione di come l’idea sia presente nel mondo. Infatti, non tanto questo tema lo interessa, quanto l’affermare tale presenza. Affermare tale presenza implica però che la partecipazione del sensibile all’intelligibile sia “causata” da una volontà non cieca, ma da una mente (vd. Anassagora e Anassimandro) che è suprema sapienza: il Demiurgo, il dio. Se però l’opera del Demiurgo sia portare l’intelligibile nel sensibile, occorre comunque che già esista ciò che riceve questo intelligibile: la Madre della generazione. Tale natura materna, in quanto deve poter ricevere qualsiasi intelligibile, non deve avere alcuna intelligibilità: essa è cioè il caos originario, la pura capacità di ricevere ogni forma. Abbiamo dunque tre cause del mondo sensibile: il mondo intelligibile (delle idee), il Demiurgo e la Madre (la Natura Informe).
La distinzione fra i due mondi produce la distinzione fra episteme e doxa che già Parmenide aveva evidenziato: l’episteme è la scienza che si rivolge alle idee; la doxa è l’opinione che si rivolge agli enti divenienti. Questi ultimi, inoltre, non sono l’essere, ma neanche il non-essere (perché non è!): gli enti divenienti sono cioè qualcosa di intermedio fra l’E e il n-E, e questo è il divenire (epamphoterizein).
  • IL MITO DELLA CAVERNA: la vita nella caverna è l’opinione; quella fuori è l’intelligenza. L’opinione si divide in fede (l’avere a che fare con i corpi sensibili – i simulacri della caverna) ed immaginazione (l’avere a che fare con le immagini dei corpi sensibili – le ombre dei simulacri nella caverna). L’immaginazione è non-verità rispetto alla fede, la quale è non-verità rispetto all’intelligenza. Anche l’intelligenza poi si divide in episteme (scienza vera e propria) e in raziocinio (conoscenza geometrico-matematica, la quale sta all’episteme come l’immaginazione sta alla fede). Quest’ultima è a sua volta non-verità rispetto all’episteme. Le conoscenze geometrico-matematiche sono, infatti, conoscenze concettuali, perché si riferiscono ad oggetti non particolari, ma universali. Tuttavia, esse non sono episteme perché partono da ipotesi non giustificate che sono però trattate come indubitabili, il che rende tali scienze ipotetiche, e non incontrovertibili come invece vorrebbero essere. L’episteme invece si solleva al disopra di ogni conoscenza ipotetica, portandosi al principio non ipotetico di ogni cosa. Platone chiama Nous (mente, intuizione) questa forma suprema dell’intelligenza umana. Il percorso che ad esso porta (il superamento di ogni ipoteticità) è invece la dialettica. Il principio non ipotetico è l’idea del Bene.
  • IL BENE: non si può, infatti, conoscere epistemicamente alcuna cosa se non si sa in che cosa consista il suo bene e se quindi non si conosce il bene in se stesso. L’idea del bene è il supremo vertice dell’essere; essa è quindi, insieme, la causa per la quale tutto può essere conosciuto nella verità e la causa per la quale ogni conoscibile esiste ed è quello che è. Di essa è immagine il sole, che nel mondo sensibile illumina e insieme fa essere le cose. E se l’idea è l’unità di un molteplice sensibile, così l’idea del bene è l’unità del molteplice ideale. La dialettica è dunque sia la scienza che sa scorgere l’ordine secondo il quale il molteplice resta unificato in idee sempre più ampie, sino a quella del Bene, sia la scienza che sa scorgere l’ordine secondo il quale l’unità suprema resta divisa in idee sempre più ristrette, sino a quelle non ulteriormente divisibili.
  • In Platone ci sono quindi due molteplici: uno sensibile, l’altro intelligibile. Occorre dunque superare in fretta la negazione del molteplice di Parmenide, e a ciò mira
  • IL SOFISTA: il non-essere ha due significati: uno è contrario all’essere (non-essere assoluto), l’altro gli è solo diverso (non-essere relativo). Una cosa particolare non è l’essere, ma non è nemmeno il niente. Essa è dunque un non-niente. Ossia un ente. L’ente è un ciò che è, una determinazione che non è né essere né non essere. L’ente diviene, e proprio per questo non può essere gli estremi fra i quali egli oscilla nel suo divenire. L’essere non deve più essere inteso come il puro essere parmenideo (che di per sé è nulla; vd. Hegel e Platone stesso), ma come la sintesi fra il puro essere e le determinazioni. Ciò che vi è identico in ogni determinazione (il problema col quale nasce la filosofia) è appunto questo suo essere una determinazione-che-è (sintesi tra il qualcosa e il suo essere).
  • Per i primi filosofi la physis è sia stoicheion (elemento) che arché (principio che governa il mondo), e lo stoicheion è sia l’identità del molteplice sia la materia originaria. Ebbene, in Platone il demiurgo è la physis in quanto arché. La madre è invece la physis in quanto materia.
    In ogni ente, l’idea è ciò che l’ente è, e il “che cosa è” di ogni ente. E poiché le idee sono a loro volta enti (immutabili), l’idea è sia il “che cosa è” dell’ente sensibile, sia il “che cosa è” di se stessa.
    Se alcune idee non possono collegarsi tra loro, altre invece possono (ad esempio, “uomo” può unirsi a “bianco”, ma non a “cavallo”). Scoprire queste relazioni è ancora una volta compito della dialettica.
    La filosofia, in quanto ascesa dall’opinione alla verità, è perfezione del modo di vivere (Socrate ed Eraclito: legame verità e vita). Anzi, poiché la vita sensibile è contraria alla verità (è opinione!), allora la morte (del corpo) realizza ciò che il filosofo cerca in vita.
  • IMMORTALITA’ DELL’ANIMA: l’anima è l’idea della vita. Quindi parlare di morte dell’anima è come parlare di raffreddamento del fuoco, di bellezza brutta (“Fedone”). Poiché l’anima è immortale, essa non solo sopravviverà alla morte del corpo, ma anche preesisterà alla sua nascita. Prima di vivere nel mondo sensibile, l’uomo vive dunque come anima nel mondo intelligibile, dove contempla le idee. Prova di ciò è il fatto che noi conosciamo le cose, il che implica la conoscenza delle loro idee, la quale non si dà nella vita sensibile. Non sapremmo cioè dire cos’è grande, se non conoscessimo la “grandezza”. Quindi conoscere è ricordare, la conoscenza è reminiscenza.
  • L’anima si divide in tre facoltà diverse:
    1. Razionale: soprassiede alla conoscenza filosofica.
    2. Appetitiva (brama, istinti): è per natura irrazionale, mirando essa solo alla soddisfazione dei propri istinti.
    3. Passionale (ira): per natura può lasciarsi guidare dalla ragione.
    Il giusto è colui nel quale la ragione domina incontrastata, ossia è colui che conosce la verità. E la verità è sia la guida dell’uomo, sia lo scopo della sua vita. Per questo la filosofia deve guidare gli stati. Il filosofo non può isolarsi, ma deve tornare nella caverna per insegnare agli altri ciò che lui ha imparato. Ma poiché nessuno gli crederà, anzi lo molesteranno, per questo motivo il filosofo deve essere in una posizione di potenza rispetto all’uomo dell’opinione; ossia deve essere custode dello stato. Lo Stato Ideale deve cioè comprendere i custodi, i guerrieri e i produttori di beni. Non dovrà invece comprendere coloro che allontanano dalla verità, come i poeti e gli artisti. In questo stato ognuno nasce in una casta precisa, cosicché non ci saranno mai salti di classe. Occorre inoltre eliminare le occasioni che possono alimentare la cupidigia nella classe dominante: in primis la famiglia e la proprietà privata. Sicché reggitori dello stato saranno solo i migliori nella filosofia e nella guerra: aristocrazia (=governo dei migliori). Tra le caste dello stato, le facoltà dell’anima e le virtù c’è un parallelismo:
    animastatovirtù
    appetitivaproduttori di benitemperanza (lasciarsi guidare dalla ragione)
    passionaleguerrierifortezza (saper affrontare ciò che la ragione/i custodi prescrivono)
    razionalecustodi/filosofisapienza (è la ragione, la conoscenza della verità-bene)
    La virtù suprema è comunque la Giustizia.
    Poiché non tutti nascono uguali, solo pochi nascono potenziali custodi: quindi solo a loro va impartita l’educazione. Il generale criterio educativo è dato dall’armonico sviluppo del corpo e della mente. Bellezza e verità. Bellezza della verità. Eros è il senso stesso della filosofia. Il fallimento dell’educazione degenera l’aristocrazia nella timocrazia (dominio dell’ambizione), questa nell’oligarchia (dominio del censo), questa nella democrazia (che elimina i privilegi imposti dalla natura stessa), e infine si giunge alla tirannide (la negazione della verità).
    Platone ipotizza una vicenda ciclica dell’esistenza dove le anime si incarnano successivamente in vite diverse, assumendo forma umana o animale, e ricevendo dopo la morte il premio o il castigo per la vita condotta.
  • L’AURIGA: (“Fedro”) su una biga alata guida un cavallo buono ed uno cattivo. Il cavallo buono tende al mondo intelligibile, quello cattivo al mondo sensibile. La perdita del controllo del cavallo cattivo fa sì che l’anima perda le ali e cada nel mondo sensibile, dove è imprigionata nel corpo. Solo la ragione del filosofo può ridare all’anima le sue ali.
  • Per Platone, dunque, l’anima decide il proprio destino, ossia vive la vita che vuole. In ciò Platone si discosta dall’usuale concezione mitica dei suoi tempi, quella omerica, nella quale l’uomo era dominato dagli dei, che gli tracciavano il destino.

    ARISTOTELE

    Il principio unificatore del molteplice, ossia ciò che tutti gli enti hanno in comune, è il loro essere un ente, un qualcosa- che-è. E un ente (o essente) è una sintesi fra la determinazione ed il suo essere/esistere. Le scienze comuni (matematica, fisica…) prendono però in considerazione solo l’ente in quanto determinato; invece, la filosofia prima prende in considerazione l’ente in quanto ente, ossia non l’ente in quanto è un certo ente (ad es. un numero). E poiché ogni cosa è ente, allora la filosofia prima (che più tardi sarà chiamata metafisica o ontologia) è scienza della totalità dell’essere e quindi è superiore a tutte le altre conoscenze umane, perché il suo oggetto è l’insieme di tutti gli oggetti di tali conoscenze minori.
  • IL PDNC: è la proprietà fondamentale dell’ente (non solo dell’essere indeterminato, come voleva Parmenide).Ma l’opposizione al n-E da parte dell’ente è duplice, perché duplice è il significato del n-E (Platone): l’ente si oppone al nulla assoluto e ad ogni altro ente. <>.Il PDNC è l’espressione originaria della ragione, è il fondamento di ogni conoscenza umana. Poiché il PDNC è per se stesso evidente, non occorre che sia dimostrato. Non lo si può neanche dimostrare, poiché esso è il fondamento di ogni dimostrazione. Si può invece mostrare che esso è innegabile, e ciò mostrando semplicemente che ogni negazione di tale principio in realtà deve affermarlo per esistere. Sicché una vera negazione non può porsi. Il negatore vuole, infatti, distruggere la ragione ragionando.
  • Se il PDNC è incontrovertibile, tale è anche la manifestazione degli enti. Ossia l’esperienza umana è indubitabile. L’intelligibilità (tramite PDNC) degli enti manifesta (tramite esperienza) – ossia la manifestazione intelligibile degli enti – è chiamata da Aristotele Nous, che quindi è l’unità di esperienza e ragione.
    Ma il PDNC non dice nulla riguardo al problema se la manifestazione degli enti (che è innegabile) sia una proprietà, il che equivale a dire: se oltre gli enti divenienti che si manifestano ci siano enti immutabili ed eterni. Gli enti divenienti sono cioè la totalità degli enti oppure no? La filosofia prima aristotelica risponde a questa domanda dimostrando l’esistenza di una realtà eterna, il Dio; la filosofia prima trova così il suo compimento nell’essere teologia razionale. La dimostrazione dell’essere immutabile richiama quella platonica del demiurgo: infatti, poiché nulla si genera dal nulla, allora è necessaria l’esistenza di un essere immutabile che sostenga la generazione delle cose. E come Platone, anche Aristotele afferma l’esistenza anche di una materia primigenia informe. Anche in Aristotele resta dunque affermato quel dualismo che invece è contraddittorio, poiché tale materia è posta come indipendente dal Dio, e allo stesso tempo come immutabile, mentre solo il Dio dovrebbe avere questa caratteristica.
  • LA DOTTRINA DELLA SOSTANZA: Aristotele chiama ousia il che cosa è un ente. Tale termina significa “l’essere un ente determinato” in un certo modo, diverso da tutti quegli altri modi degli enti che sono chiamati accidenti. Ousia è cioè la sostanza (substantia=ciò che sta sotto sorreggendo).Anche l’accidente è un ente determinato, ma l’accidente non è forte come la sostanza, che, infatti, è ciò che sorregge gli accidenti: li precede nel loro attaccarsi ad essa, e permane dopo che essi se ne distaccano. Invece l’accidente esiste solo se cade su una sostanza che lo sorregga. Aristotele chiama appunto sostanza ogni ente determinato che, a differenza degli accidenti, non può essere una proprietà o un predicato di un altro ente. Ossia la sostanza non ha bisogno di congiungersi ad altro per esistere, mentre l’accidente ha bisogno della sostanza per esistere. La relazione fra la sostanza e gli accidenti è oggetto della filosofia prima.
  • L’ANALOGIA DELL’ENTE: in “x è uomo” “uomo” ha lo stesso significato qualunque nome si metta al posto di x. La stessa cosa non vale nel caso di “x è sano”, perché “L’organismo è sano” non ha lo stesso significato di “Il colorito è sano” e di “Il nutrimento è sano”. In queste tre frasi “sano” varia di significato, ma tenendosi sempre in relazione a quello più generale di “salute”. Quando un termine si predica in diversi modi ma sempre in relazione ad un che di unico si dice che è predicato analogicamente. Orbene, il termine “ente” è predicato analogicamente: esso, infatti, significa sempre “qualcosa che è”, ma allo stesso tempo significa così in modi diversi. Ad esempio, la pianta è un ente che non ha bisogno di altro cui inerire, mentre il verde è un ente che abbisogna di altro. E’ la già vista differenza fra la sostanza e l’accidente. Ora aggiungiamo che, poiché l’accidente abbisogna della sostanza per esistere, in esso è già contenuto il significato di sostanza. Quando dunque diciamo che l’ente è predicato analogicamente, diciamo che esso è predicato in molti modi, ma sempre in relazione ad un che di unico che è la sostanza. Infatti, un ente o è sostanza o un accidente che deve avere a che fare con la sostanza. Se il concetto di ente fosse predicato univocamente (Parmenide!), allora si dovrebbe dire che a, b, c… di cui si predica l’ente (di cui si dice che sono un ente), possono differire tra loro solo in quanto in essi c’è qualcosa che non è un non-ente, il che è un niente. E il niente non è. Sicché fra a, b e c non ci sarebbe distinzione alcuna. E la molteplicità del mondo dell’esperienza sarebbe negata (Parmenide!).
  • LA SOSTANZA SENSIBILE:
  • 1. FORMA E MATERIA: la sostanza è il che cos’è di un ente. Aristotele usa anche il termine “forma” per indicare il che cos’è di un ente. L’uso di questo termine si spiega soprattutto in relazione alla sostanza sensibile, dove ciò che una cosa è ha la caratteristica di unificare, di dare una forma appunto a una molteplicità di materiali. La sostanza sensibile è cioè la forma di una materia: è l’unità (synolon) di una forma e di una materia.
    2. ATTO E POTENZA: la materia può essere unificata dalla forma solo se ha una predisposizione ad essere così unificata. Tale predisposizione è detta da Aristotele potenza (potenza passiva, ossia capacità di lasciarsi plasmare). La materia unificata dalla forma è invece la forma stessa in atto.
    3. MATERIA SECONDA E MATERIA PRIMA: la generazione di un ente è quindi passaggio da un essere in potenza ad un essere in atto. Ma l’essere in potenza è in altro senso già essere in atto (un blocco di marmo è una statua in potenza e un blocco di marmo in atto); ossia la materia è già a sua volta una qualche unità di materia e forma. Ma per Aristotele questa catena si deve fermare, perché il rinvio all’infinito non può esistere. Infatti, di una statua non avremmo la materia originaria, sicché, non essendoci l’inizio, non ci può essere neanche la fine: la statua stessa. Ma poiché la statua c’è (lo attesta l’innegabilità dell’esperienza), allora deve esserci anche una materia originaria. Tale materia originaria, alla quale si arresta il rinvio all’infinito dalla forma alla materia, è chiamata da Aristotele materia prima, mentre materia seconda è ogni materia che a sua volta è sintesi di forma e materia. In quanto originaria, la materia prima non può essere in atto, e quindi non può essere neanche un ente determinato: essa è cioè assoluta indeterminatezza e potenzialità (è la materia-madre di cui aveva parlato Platone).
    4. FORMA SOSTANZIALE E FORMA ACCIDENTALE: la sostanza è una forma che non è né l’universale idea platonica (ché se no non avrebbe rapporti con l’ente sensibile) né qualcosa di singolare e individuale (ché se no sarebbe l’individuo determinato, e non avremmo i concetti di “uomo”, “animale”…): la sostanza è dunque l’individuazione dell’universale, l’universale in quanto individuato. Ma anche di ogni accidente della sostanza è possibile rilevare che cosa esso è: e poiché il “che cos’è” è la sostanza, allora anche l’accidente è una forma. Si deve dunque distinguere la forma in cui consiste la sostanza – forma sostanziale – dalla forma in cui consiste l’accidente – forma accidentale – che può esistere solo congiungendosi ad una forma sostanziale.
    5. LE CATEGORIE: i due tipi fondamentali di forme (sostanziali e accidentali) o, come Aristotele si esprime, i due generi supremi dell’essere, sono chiamati da Aristotele “categorie”, (=determinazioni). Oltre alla sostanza, Aristotele menziona la qualità, la quantità, la relazione, l’azione, la passione, il luogo, il tempo. Ogni ente è cioè o una sostanza o una delle altre categorie. E ogni forma accidentale è una specificazione delle categorie che sono diverse dalla sostanza.
  • IL DIVENIRE:
  • 1. CARATTERE DETERMINATO DEL DIVENIRE: l’esperienza attesta che il divenire è un processo di generazione e corruzione dell’ente. Poiché dal non-essere non si genera nulla, tale divenire non è divenire del Tutto, ma solo degli enti sensibili: è cioè un divenire determinato. Il punto suo di partenza è la privazione di una forma. E poiché la forma è duplice, come abbiamo visto, tale sarà anche il divenire: divenire accidentale e divenire sostanziale. Ma se il divenire fosse il passaggio dalla privazione alla forma, quest’ultima si genererebbe dal suo non-essere, il che è contraddittorio. Occorre quindi un terzo elemento, che permanga nel passaggio dalla privazione alla forma: è il sostrato. Il divenire è quindi un diveniente, precisamente quel diveniente che nel divenire è anche il permanente stesso. Ma nel divenire accidentale il sostrato è una sostanza, ciò che non può essere nel divenire sostanziale. Questo richiede quindi l’esistenza di un sostrato che non è né accidente (altrimenti avremmo un divenire accidentale) né una sostanza (la sostanza non può generarsi da se stessa, perché è un nonsenso): questo sostrato è la pura potenza, l’assoluta indeterminatezza; è cioè la materia prima. Essa diviene nel senso che è un continuo anelito ad attuarsi, a colmare la propria mancanza di forma, anelito questo che ovviamente non può essere soddisfatto. Da tutto ciò si capisce che il divenire è anche il passaggio dalla potenza all’atto
    2. DAL DIVENIRE ALL’IMMUTABILE: in questo senso, il divenire è quindi passaggio da un essere a un altro modo d’essere (passaggio tra sensi analoghi dell’essere). Parmenide, invece, considerando il divenire indeterminato (perché egli ragionava in termini di sola privazione e forma, senza tenere conto del sostrato) giunse a reputarlo contraddittorio e a negarlo. La dottrina del sostrato scongiura le conclusioni del venerando maestro. Ovviamente, la forma, per sopraggiungere, deve preesistere al sostrato che ne è privo, e deve preesistere ovviamente in un altro sostrato nel quale essa sia già in atto. Quest’altro sostrato è il motore che genera il divenire dell’ente privo di forma. Ma anche questo sostrato movente dev’essere stato a sua volta mosso: omne quod movetur, ab alio movetur. Ma anche qui la catena dei motori/moventi non può essere infinita! L’infinito attuale per Aristotele non esiste. Deve dunque essere un Movente Immobile, che sia cioè atto puro (ossia che non divenga, non passi dalla potenza all’atto).L’atto puro è il Dio, che contiene ogni forma. Ma se esso muove senza muoversi, egli muove in quanto oggetto di desiderio. Il movente immobile non è quindi causa efficiente, ma causa finale. Abbiamo quindi quattro cause del divenire: a) Causa Formale, ossia la forma che deve sopraggiungere; b) Causa Materiale, ossia il sostrato che è privo di forma; c) Causa Efficiente, ossia il movente; d) Causa Finale, ossia il Dio, l’atto puro. Il Dio, l’atto puro, è anche c) o solo d)? BO! Penso anche c), altrimenti il rimando all’infinito non sarebbe scongiurato. Allo stesso tempo, però, in quanto immobile, non può essere c), o forse lo è in modo diverso, appunto in quanto d). Il pensiero del Dio è la sapienza suprema; il Dio, infatti, contenendo tutte le forme conoscibili, pensa se stesso. Il contenuto supremo dell’episteme è quindi l’Episteme divina.
  • EPISTEME, DIALETTICA PLATONICA, ANALITICA (LOGICA) ARISTOTELICA:
  • 1. La dialettica platonica è la conoscenza necessaria della sintesi del molteplice ideale nell’idea suprema (il Bene) e dello stesso dividersi di questa nella molteplicità delle idee. L’analitica aristotelica (detta anche logica) è la scienza del “saper sciogliere, risolvere nelle parti”. In ciò le due tecniche sono vicine.
    2. CRITICA ARISTOTELICA ALLA DIALETTICA PLATONICA: l’episteme è sia scienza necessaria dei principi (necessari) sia scienza necessaria dei passaggi (necessari) dai principi alle tesi che formano il corpo della scienza. Se il primo senso è il PDNC stesso, Aristotele critica la pretesa della dialettica platonica di porsi come metodo del secondo senso. Infatti, il metodo diairetico platonico (“Sofista”) concede ciò che dovrebbe essere provato, e quindi non è necessario ma ipotetico. Per quale motivo (nel metodo diairetico) A è ricondotto a B e non invece a non-B? Perché chi applica il metodo sa già in anticipo che A è B, ad esempio che la pianta è un corpo!
    3. IL SILLOGISMO: un’idea è più ampia di un’altra se di essa partecipano più idee che della seconda. L’idea più ampia è il “genere”, che ha maggior “estensione” della “specie” ma è meno ricco di questa. Un ragionamento è necessario quando il medio tra gli estremi (il genere e la specie) ha un’estensione intermedia rispetto ad essi (ossia maggiore della specie e minore del genere). Questa struttura fondamentale è il sillogismo, che consente alla fragile dialettica platonica di diventare, da ipotetica qual era, necessaria. La premessa contenente l’estremo minore è la premessa minore; quella contenente l’estremo maggiore è la premessa maggiore. La conclusione invece unisce i due estremi. Il sillogismo ha tre “figure”: 1) il medio è predicato nella premessa maggiore, è soggetto nella premessa minore; 2) il medio è predicato in ambedue le premesse; 3) il medio è soggetto in ambedue le premesse. Ogni figura ha poi quattro “modi”, secondo la configurazione delle proposizioni: universale affermativa, universale negativa, particolare affermativa, particolare negativa.
    4. A cosa serve questo discorso sul sillogismo? Ricordando che l’episteme ha due volti, il sillogismo è il secondo, ossia è il metodo per ottenere derivazioni necessarie (ciò che mancava alla dialettica platonica). Ciò significa che le conseguenze sono verità necessarie (epistemiche) sia perché esse ereditano la verità necessaria dalle premesse, sia perché la ereditano in modo necessario. La validità della derivazione necessaria del sillogismo è data dal fatto che anche se le premesse sono false, la derivazione resta necessaria, corretta (Aristotele fonda dunque la moderna logica formale). Comunque, per Aristotele la conoscenza incontrovertibile è sempre forma epistemica+contenuto epistemico (sillogismo+PDNC). Aristotele ha però studiato anche i sillogismi dialettici (“Topici”), dove le premesse sono ipotetiche o addirittura false (sillogismo apodittico, non dimostrativo, non epistemico).
    Diamo ora uno schema sulla struttura dell’episteme e sulla struttura delle scienze in Aristotele:
    EPISTEME dell'immutabile: METAFISICA ONTOLOGIA (ente in quanto ente)
    TEOLOGIA (Dio, motore immobile)
    del diveniente: FISICA Degli enti sensibili
    Scienze geometrico-matematiche


    EPICUREISMO E STOICISMO:

    Tutto il pensiero greco si sviluppa in relazione al problema del divenire. Parmenide gli nega verità. Platone e di più Aristotele lo riscattano. Tale riscatto si fonda sulla distinzione tra l’ente originario (i quattro elementi di Empedocle, le omeomerie di Anassagora, gli atomi di Democrito, le idee di Platone, il Dio di Aristotele) e l’ente derivato. Il principio di Parmenide tramite questa distinzione assume una diversa formulazione: l’ente non può generarsi dal, e corrompersi nel nulla. Ma la distinzione provoca anche uno scisma tra le dottrine filosofiche: infatti, alcuni dicono che il divenire del mondo ha uno scopo, il Dio (Aristotele, e anche Platone); altri dicono invece che il divenire non ha nessuno scopo (l’atomismo). Alla seconda concezione si rifà Epicuro; alla prima lo stoicismo. Tuttavia, le due scuole (epicurea e stoica) sono accomunate dalla loro comune critica al dualismo emerso con Platone e ribadito da Aristotele, dualismo consistente nella distinzione tra Dio e Materia Originaria. Tale dualismo rompe la tradizione antica del Circolo: tutte le cose dell’universo ritornano là donde sono venute; non esiste un fondo ultimo delle cose (ciò che Aristotele chiama Materia Prima) che esista indipendentemente dall’Origine e dal Termine dell’universo. Poiché questa è anche la concezione dell’atomismo, Epicuro parlerà proprio con i termini di questa dottrina.

  • EPICURO
  • “Vano è quel discorso filosofico che non sappia curare qualche umana passione … [qualche] malattia dell’anima”. E la malattia dell’anima per eccellenza è la non-verità. Verità è “tutto ciò che è presente come evidenza”, ossia come innegabile, incontrovertibile. Se quindi ci si limita ad affermare l’evidente non si può cadere nell’errore. Questo accade invece quando si pretende di interpretare l’evidente. Tuttavia, l’evidenza dell’esperienza è anche per Epicuro unita all’esigenza della ragione, affermante che niente si genera dal nulla o vi si corrompe. Per Epicuro, ciò che scongiura la contraddizione nel divenire è, come per Democrito, la presenza degli atomi come sostanza delle cose. Se gli atomi non esistessero, non esisterebbe nemmeno il divenire (poiché sarebbe contraddittorio). Ma tra le cose evidenti c’è la libertà dell’uomo, la quale vuole quindi che il movimento degli atomi non sia necessario (come pensava Democrito), ma casuale. Non esiste dunque alcuna necessità del Fato, né alcuna teleologia nel divenire cosmico. Non esiste quindi alcun Dio, perché il Dio controlla per definizione il divenire. Le azioni umane non sono quindi vincolate da alcuna legge morale legata al soprasensibile. La morale deve basarsi solo sul piacere e sul dolore, che sono due cose evidenti. Ed evidente è anche il fatto che il piacere è da perseguire, mentre il male no. La verità in Epicuro afferma quindi che l’uomo deve perseguire il piacere, e che non esiste nessun Dio. E il Dio è visto da Epicuro come minaccioso (perché non si sa cosa vuole). La vita dell’uomo è tutta nelle sue mani, e questa è vera felicità. Ma la felicità suprema (pari a quella di Zeus) non è il mero piacere, bensì quello stato intermedio tra piacere e dolore, che non ci fa soffrire né perché siamo nel dolore, né perché siamo nel piacere e quindi possiamo perderlo. L’assenza di dolore e quindi di piacere è il piacere supremo. Questo stato è la Saggezza (phronesis), che non è ottenibile senza la conoscenza della verità, cioè senza la filosofia (legame fra la filosofia e la vita). L’ignoranza produce ogni male (e in ciò, Epicuro si rifà a Socrate). Socrate, Platone, Aristotele ed Epicuro affermano quindi tutti che la verità permette la conoscenza delle verità del bene, ossia di ciò che il bene è in verità. Sicché chi persegue il male perché non sa cos’è in verità (necessaria) il bene, e pensa che sia una certa cosa. La verità permette di passare dall’opinione del bene alla conoscenza del Bene. La Saggezza è quindi la contemplazione della verità unita all’assenza di dolore. Per la vita felice non è dunque necessaria l’esistenza dello stato (come non è necessaria – ossia sarebbe controproducente – l’esistenza di Dio). E innaturale come lo stato è anche la famiglia, e la stessa vita sessuale. Per ottenere la felicità all’individuo bastano le sole sue forze: è questa l'autarchia dell’uomo. “Vivi nascosto”. Restano ancora due ostacoli da sormontare: il dolore del corpo e la paura della morte. Per il primo, Epicuro dice che tanto più è forte, tanto più è breve; e comunque è sempre sopportabile. Resta però la paura che ci porti alla morte (II ostacolo). Ma, dice Epicuro, poiché nella morte l’uomo diventa nulla, allora la morte è nulla per l’uomo. Finché noi ci siamo, non c’è la morte; d’altra parte, quando c’è la morte non ci siamo noi. Quindi il problema non c’è. E non bisogna neanche dire che se non c’è la morte non c’è la vita eterna per realizzare la felicità, poiché questa è completamente raggiungibile nella vita terrena. La modernità di Epicuro giace nel fatto che eli si accorge che il rimedio alla paura dell’esistenza, il Dio, è invece il male peggiore. Egli decide quindi di eliminare questo terrore dell’eterno, eliminando l’eterno.

  • LO STOICISMO
  • Nel III sec. a.C. Zenone di Cizio fonda ad Atene la Stoà (=il portico, dove si riunivano i suoi discepoli).Lo stoicismo è la sintesi di tutti i guadagni del pensiero greco. Platone e Aristotele spezzano l’unità originaria del Tutto nel dualismo di Dio e Materia Prima. Lo stoicismo provvede a ricomporla. Un’esigenza analoga è già presente nell’epicureismo. L’importanza dello stoicismo sta nell’aver affermato la contraddizione implicata nell’idea di un Dio che è atto puro e che nulla ha fuori di sé e di una Materia originaria esterna al Dio. Tale contraddizione, rilevata dallo stoicismo, sarà definitivamente risolta dalla filosofia medievale. Lo stoicismo rileva che Dio non potrebbe essere perfetto (atto puro) se la materia, come radice del mondo, esistesse indipendentemente da lui. Il Dio è quindi tanto principio attivo del divenire, ossia causa efficiente, tanto principio passivo (quale era la materia), ossia causa materiale. Anche per lo stoicismo, come per l’epicureismo, ogni ente è corpo. Ma per l’epicureismo, il materialismo è conseguenza dell’atomismo. Nello stoicismo, invece, il materialismo è soltanto apparente, perché essi usano “ente” per indicare solo un certo tipo di ente, quello appunto corporeo. Per indicare tutti gli enti essi dicono invece ti, ossia “qualcosa”. Lungi dunque dall’essere un mero materialismo, lo stoicismo rileva anzi come ogni ente sia penetrato, sorretto e guidato dalla Ragione, ossia dal Logos. Il seme di tutte le cose è logos. E se l’universo è prodotto dal Logos, allora niente in esso è casuale, bensì tutto è razionale, è come deve essere. E il Logos è l’episteme divina, il Dio che pensa se stesso. Il Logos divino del mondo è dunque Provvidenza, Fato, Destino. Ma se nulla è casuale, allora non esiste la libertà umana. In queste tematiche si può vedere la netta contrapposizione all’epicureismo. L’unica libertà è quella del saggio, che vuole ciò che vuole il fato. La vera libertà consiste nel volere ciò che il fato vuole. Anche nello stoicismo, dunque, la vera virtù (areté) è l’episteme, ossia la conoscenza del logos. La felicità è la partecipazione al Logos divino, ossia è l’episteme, la filosofia. Come in Socrate, Platone, Aristotele, anche nello stoicismo la virtù è, nell’uomo, la capacità di raggiungere il bene che gli è proprio: la ragione perfetta. E l’essere ciò che per natura si è, è la felicità. La virtù è la felicità, ossia la scienza. E poiché la ricerca della verità è sviata dalle passioni, perché ci fanno concentrare sull’ente e non sul qualcosa, allora non bisogna avere passioni. Apatia significa appunto “assenza di passioni”. Il contributo più originale della dialettica stoica riguarda una fondamentale integrazione della logica aristotelica. Mentre la sillogistica aristotelica considera le conseguenze necessarie che si possono trarre dal modo in cui sono assunti e sono disposti gli estremi e il medio nelle due premesse del sillogismo, la logica stoica considera le conseguenze necessarie che si possono trarre da un insieme di proposizioni, dove ogni proposizione è considerata come un’unità inseparabile. La logica stoica fonda così il calcolo delle proposizioni, mentre la sillogistica fonda il calcolo dei predicati. E come per Aristotele, anche per gli stoici la dialettica esprime la struttura razionale della realtà, l’articolazione essenziale del logos.

    LO SCETTICISMO:

  • PIRRONE
  • Nella seconda metà del IV sec. a.C. Alessandro Magno raggiunge l’Oriente, e tra le sue truppe c’è Pirrone di Elide, che importò nella sapienza greca alcuni temi con i quali venne a contatto in oriente (I Veda). Anche in Pirrone la felicità è raggiunta tramite l’episteme, ossia la conoscenza della verità delle cose. E se per scetticismo si intende la negazione di ogni verità (la quale è per altro un’idea-limite, poiché anche gli scettici non negheranno mai la verità, sapendo essi che questa negazione, per essere valida, dovrebbe essere una verità a sua volta [PDNC] ), si vede già che Pirrone non era uno scettico vero e proprio. Piuttosto, dai temi che lui affrontò nacque lo scetticismo. Pirrone si accorge dell’aporia insita nel dualismo platonico-aristotelico, e ripiega quindi verso l’essere parmenideo. Anche per Pirrone, infatti, la realtà è illusione, è completamente priva di verità (e in ciò è uno scettico!); nel mondo ogni cosa si contraddice, come ha dimostrato Zenone. (“è e non è”, “né è né non è”). Ma per poter parlare di saggezza di fronte all’essere parmenideo Pirrone deve rivolgersi alla saggezza orientale. Il saggio diventa così colui la cui vita è guidata da: atarassia (imperturbabilità), afasia (il non parlare), l’epoché (la sospensione del giudizio), l’apatia (l’assenza di passioni). La felicità scaturisce da questa assoluta indifferenza per il mondo, carattere questo del Dio di Aristotele nei confronti del mondo. I Veda chiamano Atman questo “sé” profondo dell’uomo dove egli coincide con Dio.
  • ENESIDEMO, SESTO EMPIRICO E AGRIPPA
  • Alcuni secoli dopo, gli scettici si rifanno a Pirrone, ma lasciando completamente cadere la componente parmenidea del suo pensiero, l’affermazione della physis eterna del divino e del bene. Il senso della verità evocato dalla filosofia resta fermo anche nello scetticismo: solo che quest’ultimo, a differenza delle filosofie non scettiche, crede di poter constatare che quel senso, nonostante le apparenze, non ha preso corpo e che quindi si impone, per chi pensa, la “sospensione del giudizio” (epoché). Tale sospensione non può essere ovviamente una verità assoluta, ma è la situazione in cui si trova l’uomo quando si trova a contemplare lo sviluppo del sapere filosofico. La constatazione che la verità non ha preso corpo si svolge in vari modi, ma i principali sono due:
    1. Enesidemo: ogni cosa, considerata per se stessa, isolatamente dalle altre, è incomprensibile.
    2. Sesto Empirico: non esiste alcuna garanzia che i fenomeni corrispondano alle cose come sono in se stesse.
    Il primo tema sarà ripreso nella modernità da Hegel (è il tema del carattere dialettico dell’essere); il secondo da Kant.
    Infine, Agrippa dirà che l’episteme si fonda su teoremi che, spacciati per evidenti, sono invece contenuti di fede posti per bloccare il regresso all’infinito. Ovviamente, tale critica sbaglia di molto.

    PLOTINO

    La filosofia di Plotino è l’ultimo grande tentativo di riproporre il pensiero greco come unica e suprema forma di sapienza umana, in aperta antitesi al pensiero cristiano, fondato sulla fede, ossia sull’opinione e non sull’episteme. Il Circolo tipico del pensiero greco in Parmenide si era ridotto ad un punto, in Platone e Aristotele si era scisso in due semicerchi. Epicureismo e stoicismo si accorgono di ciò e tentano di restaurare il Circolo, ma è in Plotino che questo proposito raggiunge la perfezione. Egli se si accorge, infatti, che, se a Dio manca la Materia, allora esso non è in atto, ma è in potenza. E ciò significa che Dio diviene, ossia non è immutabile. Ossia, in ultima analisi, non è Dio. Ma l’immutabile non può essere negato (la filosofia greca ha mostrato abbastanza le contraddizioni scaturenti dalla sua negazione), quindi è necessario dire che Dio produce la materia, ossia la crea. Per questo motivo, nel Circolo plotiniano c’è un punto che è diverso da tutti gli altri, perché li produce. Il senso di quel punto Plotino lo definisce usando la filosofia di Platone, e per questo egli è stato identificato come un neoplatonico. Come in Platone, l’episteme plotiniana è dialettica che riconduce il molteplice all’Uno e l’Uno al molteplice: è cioè sia sintetica sia analitica. Se ogni ente è come è perché ha un’unità, tuttavia questa unità non è l’Uno in sé. E in questa affermazione vanno comprese anche le idee. L’Uno in sé trascende quindi sia il molteplice sensibile sia quello intelligibile. L’Uno in sé è cioè la prima ipostasi (=fondamento, ciò che sta sotto), la base di tutto ciò che esiste, e quindi il principio creatore di tutto l’ente, l’infinita potenza creatrice. La modernità di Plotino (che anticipa in questo senso Hegel stesso) sta in questo carattere produttivo dell’Uno. La presenza dell’Uno nelle idee, il passaggio dall’Uno al molteplice non è solo un movimento conoscitivo, bensì è un mutamento produttivo e creativo della realtà. La dialettica non è solo il movimento del conoscere, ma è innanzi tutto il movimento della realtà. L’Uno è quindi uno solo in quanto unità, mentre in quanto produttività non manca di niente, e quindi in questo secondo senso l’Uno è molteplice.
    Ci si può chiedere: perché per Plotino l’Uno non è l’unità del molteplice delle idee platoniche, o perché non è neanche il “pensiero del pensiero” aristotelico, dove il mondo delle idee è posto come contenuto del pensiero divino? La risposta sta nel fatto che ciò che Platone ed Aristotele chiamavano distinzione Plotino lo chiama separazione. Per questo l’Uno in sé è sia al di là dello Spirito (pensiero divino aristotelico), sia al di là dell’essere (mondo delle idee platonico). Poiché Platone dice che le idee sono distinte, seppur unite nell’idea del bene (essere), allora Plotino conclude/interpreta che le idee sono separate, sicché l’unità delle idee e del molteplice resta comunque estranea all’Uno in sé, che li trascende.
  • LE TRE IPOSTASI: trascendendo la separazione, l’Uno vuole se stesso. Ma poiché esso è ogni cosa, allora l’Uno vuole anche creare il molteplice. Lo vuole nel senso che, poiché sovrabbonda, dà. Ma la produttività necessaria dell’Uno è “discendente”, ossia l’Uno produce qualcosa che è sempre meno perfetto. La prima ipostasi è dunque l’Uno in sé, la seconda è lo Spirito (il pensiero divino che pensa se stesso e quindi il mondo intelligibile), la terza è l’Anima (il demiurgo platonico che, contemplando le idee, produce l’universo visibile).
  • 1. LO SPIRITO: per la sua sovrabbondanza l’Uno produce, quindi produce l’altro da sé. Ma l’altro dall’Uno è il molteplice originariamente prodotto è quello la cui unità è massima dopo l’unità dell’Uno. Questo originario molteplice unificato è lo Spirito, cioè l’unità di Pensiero ed Essere. Lo Spirito, quando ha davanti a sé l’Uno come unità del molteplice, è Essere; quando, come essere, si rivolge invece a se stesso per vedervi il Bene, lo Spirito è Pensiero. Come si vede, il passaggio dall’Uno allo Spirito forma già il Circolo, perché lo Spirito si rivolge nuovamente all’Uno.
    2. L’ANIMA: lo stesso circolo si ricostituisce con la produzione della terza ipostasi, l’Anima. Essa è lo Spirito in quanto produttore del mondo, cioè in quanto presente nel mondo e partecipato da esso. L’Anima è dunque il demiurgo platonico, ma considerato nella sua essenziale relazione allo Spirito e non come figura separata da esso.
    L’Anima produce il mondo, la natura (physis), l’ordinamento determinato dall’intelligibile nella materia. E quest’ultima (Materia Prima) è mancanza di ogni forma, indeterminatezza (come per Platone ed Aristotele), e quindi è non-essere. E poiché l’Uno è il Bene, la materia (in quanto è l’opposto dell’Uno) è il male. Male però non prodotto direttamente dal Bene, poiché è il Bene che, per produrre, abbisogna di un limite che sia privo di bene: il male, appunto. Ma poiché dal nulla non si genera nulla, allora la materia è il puro ricettacolo speculare in cui si generano e si corrompono le forme e le cose del mondo. Poiché non è Uno, la materia è non-verità, quindi è menzogna. Sì che, per le cose che nel mondo divengono, “l’entrare nella menzogna avviene in modo menzognero”.
  • L’UOMO E IL RITORNO ALL’UNO: le ipostasi dell’Uno negano l’ideale cristiano di Salvezza dall’alto, poiché l’Uno crea ma non guardando il mondo. Egli non ama il mondo, ma è amato da esso. Dall’Uno all’Anima l’uomo è prima Uomo dello Spirito, un Dio, poi Uomo del mondo. Suo scopo è rivolgersi nuovamente all’Uno. (mito della caverna platonico). Se l’emanazione dall’Uno alla materia è una differenziazione, questo ritorno all’Uno sarà invece una semplificazione, che però arricchisce. L’arrivo all’Uno (la semplificazione massima) è l’estasi, il culmine dell’episteme. Questa estasi è però anche un tornare al punto di partenza, ossia è il ripristinarsi del Circolo. Non pensa serva rilevare che lo svilupparsi del Circolo segue linee necessarie.

  • Anassimandro: “Onde è la nascita per le cose che esistono, lì si compie anche la loro dissoluzione secondo necessità”.

    LA SCIENZA MODERNA

    Sin dal suo inizio la filosofia si rivolge al senso unitario del Tutto per contemplarlo e comprenderlo. La scienza moderna si rivolge invece alle singole parti, per dominarle e quindi per manipolare e cambiare il mondo. Se la filosofia cerca dunque di riunire il molteplice, la scienza moderna tenta di scinderlo, isolandone le parti. Già Aristotele aveva esplicitamente detto che la fisica studia l’ente in quanto determinato in un certo modo, e non l’ente in quanto ente: il che equivale a dire che essa prende in considerazione solo parti isolate dell’essere. Galileo Galilei (1564-1642) è uno tra i primi ad affermare questa necessità dell’isolamento per il crescere della scienza, e anche ad affermare (in pieno contrasto con la filosofia greca, dalla quale comunque la scienza moderna sorge) il potere conoscitivo e quindi pratico di questo isolamento. La scienza, quando afferma che una causa produce un certo effetto, formula un’ipotesi, la cui verità deve essere dimostrata. Ma se la filosofia dimostrava le proprie ipotesi riportandole ai principi dell’episteme, la scienza invece prova le proprie tesi mediante un insieme di operazioni pratiche, attraverso le quali si riproduce il fenomeno osservato. Se questo segue le predizioni dell’ipotesi, allora questa è veri-ficata (=fatta vera). Altrimenti, si formula un’altra ipotesi e si ricomincia tutto. Il cardine della scienza moderna è quindi l’esperimento. Ad esempio, Galileo verificò la sua teoria sulla caduta dei corpi facendo cadere dalla torre di Pisa un peso da una libbra e uno da cento libbre. Questo fu il primo vero esperimento scientifico. E poco importa se le sue conclusioni siano in pieno contrasto con le opinioni scientifiche dei grandi filosofi. Francesco Bacone (1561-1626), contemporaneo di Galileo, Affermò esplicitamente che la scienza è una “dissezione della natura”, e se pur non portò contributo alcuno alla scienza, suo merito è appunto quello di esplicitare il sottofondo teorico della scienza moderna. Giova notare che, per Aristotele (e del resto per ogni filosofi greco) un braccio tagliato è solo il dipinto di un braccio, perché nel significato di braccio è insito “l’essere attaccato ad un corpo”. Tuttavia, la struttura de credenza che permette la nascita dell’esperimento scientifico è la stessa che sorregge l’agire umano. Ogni azione che l’uomo fa, infatti, egli la fa che è convinto che il mondo sia manipolabile, ossia scisso in parti. Non prenderei in mano una penna, se non fossi convinto che quella penna può essere tolta (dissezionata) dal contesto spaziale e temporale in cui si trova. E poco importa se l’uomo non riflette sulle azioni che fa: la struttura dell’azione umana è stata, infatti, già esplicitata da Aristotele nella sua “Etica Nicomachea”. Dobbiamo dunque mettere in luce in che consista l’elemento specifico per il quale la sperimentazione scientifica si distingue dalle altre azioni dell’uomo miranti ad uno scopo.
    La scienza isola dunque il Tutto in parti. Non solo, ma si occupa solo della parte sensibile. Essa non nega l’esistenza di Dio, perché semplicemente non le interessa. Inoltre la scienza compie un ulteriore isolamento, precisamente quello tra gli aspetti qualitativi e quelli quantitativi della materia, dove solo i secondi interessano alla scienza, poiché – essa dice – i primi non esistono, essendo un prodotto della nostra percezione. Se non nega il soprannaturale, la scienza nega comunque la dimensione qualitativa degli oggetti. Si può notare la stretta parentela tra le concezioni della scienza e la filosofia atomistica greca. La distinzione tra la verità degli aspetti quantitativi e il carattere soggettivo degli aspetti qualitativi risale, infatti, a Democrito. Ma Galilei, a differenza di Bacone, tra un’altra conseguenza centrale per la scienza anche dei nostri giorni: se la natura è quantità, allora la scienza deve fondarsi su una conoscenza che abbia per oggetto la quantità. E tale è la matematica, che così diventa la vera conoscenza della realtà naturale. Nella scienza moderna fa così la sua comparsa un altro grande momento della filosofia greca: il pitagorismo. Galilei afferma così che l’universo “è scritto in lingua matematica”. Ovviamente, Galileo non dice come Pitagora che il numero è il senso stesso del Tutto (perché alla scienza non interessa il Tutto. Paradossalmente però, anche se la matematica è una conoscenza della parte e non del Tutto (e quindi non potrebbe essere detta necessaria), tuttavia Galilei dice che essa è una conoscenza necessaria. E questo carattere paradossale è giunto fino agli inizi del nostro secolo.
  • IL METODO DELLA SCIENZA IN GALILEO E BACONE: per Galileo la struttura della scienza è tripartita: innanzi tutto c’è l’esperienza, che presenta la realtà naturale. In secondo luogo c’è la ragione matematica, che coglie l’aspetto quantitativo di questa realtà sotto quello sensibile-qualitativo. Infine c’è l’azione, che con l’esperimento verifica le predizioni matematiche. Seppur questi tre elementi derivino dalla filosofia greca, la loro sintesi è qualcosa di nuovo rispetto alla logica dell’episteme. *** Il metodo di Bacone è simile a quello di Galileo, anche se egli non ha visto l’importanza della matematica, ha sopravvalutato l’importanza dell’induzione e ha definito in modo ambiguo il concetto di causa. Riguardo al rapporto causa-effetto, Bacone disse che la causa di un fenomeno deve essere presente quando il fenomeno è presente, assente quando il fenomeno è assente, e deve variare proporzionalmente alla variazione del fenomeno. Bacone, però, non comprese l’importanza fondamentale dell’esperimento, a differenza di Galileo.
  • BACONE: disse che c’erano quattro idoli da combattere:
  • 1. Idoli della tribù: sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribù o razza umana.
    2. Idoli della spelonca: sono idoli dell’uomo in quanto individuo.
    3. Idoli del foro: derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del genere umano.
    4. Idoli del teatro: sono penetrati nell’animo degli uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni.
    Tolti gli idoli, Bacone illustra la sua teoria della deduzione usando il famoso metodo delle tavole:
    1. Tavola dell’essenza o della presenza, in cui si registrano tutti i casi positivi in cui si verifica il fenomeno.
    2. Tavola della deviazione o dell’assenza in prossimità, in cui si registrano i casi negativi nei quali non si verifica il fenomeno, mentre si avevano motivi per supporre il contrario.
    3. Tavola dei gradi o di comparazione, in cui si registra il crescere o il diminuire del fenomeno
    Queste tavole sono vere e proprie schede che lo scienziato deve compilare quando studia un dato fenomeno.

    LOCKE: l’empirismo

    In contrapposizione al razionalismo, afferma che non esistono idee innate. Se esistessero tutti dovrebbero possederli, anche i bambini e gli idioti, il che non è vero. Al contrario, le idee derivano alla mente umana dall’esperienza. L’esperienza, inoltre, fornisce dati da due realtà: l’esterna (la natura), nel qual caso si ha la sensazione; l’interna (lo spirito), nel qual caso si ha la riflessione. Le idee sono o semplici o complesse: le idee semplici derivano direttamente dai due modi d’esperienza ora visti, e sono la base di ogni conoscenza. La loro composizione origina le idee complesse. Anche Locke, seguendo Galileo, distingue le qualità primarie (“quantità”) dalle qualità secondarie (“qualità”). Solo le qualità primarie esistono realmente negli oggetti, mentre invece le qualità secondarie esistono solo nel percipiente.
    Le idee complesse si riconducono a tre categorie fondamentali:
    1. Modi: sono idee di cose che per esistere dipendono da sostanze o affezioni di sostanze.
    2. Sostanze: sono idee di combinazioni di idee semplici, sussistenti per se stesse.
    3. Relazioni: sono comparazioni fra idee (es.: identità, causalità…).
    Va notato che la definizione di sostanza di Locke le toglie realtà, poiché non è un’idea semplice. L’esistenza di una sostanza è dunque un’ipotesi della mente umana, mirante a dare unità ad un insieme di idee semplici. La sostanza non è presente nell’esperienza, ma è una produzione arbitraria della mente umana.
    La conoscenza, seppur deriva dall’esperienza, tuttavia non si limita a essa. La conoscenza, invece, è la percezione del legame e dell’accordo o del disaccordo e della incompatibilità tra nostre idee qualsiasi. La conoscenza ha tre gradi:
    a) Intuizione: è la percezione immediata dell’accordo o del disaccordo tra due idee, per via diretta, senza l’intervento di nessun’altra idea. E’ la conoscenza più chiara ed evidente.
    b) Dimostrazione: è la percezione non immediata, ottenuta per via indiretta tramite l’uso di altre idee, dette “prove”. E’ una conoscenza meno certa ed evidente che quella intuitiva.
    c) Sensazione: è la conoscenza meno chiara ed evidente delle tre, poiché la certezza dell’esistenza di oggetti esterni è limitata all’attimo della sensazione; quando questa cessa, la certezza stessa cessa.
    **********************
    ALCUNE NOTE DI SEVERINO IN MERITO:
  • L’area dell’esperienza lockiana coincide con l’area dell’essere oggettivo cartesiana.
  • La duplicità dell’esperienza postulata da Locke non è altro che una riaffermazione della dualità cartesiana tra idea e realtà esterna.
  • Oltre Cartesio è invece la tesi dell’inconoscibilità delle sostanze. Relativamente alle idee semplici la mente dell’uomo è passiva, poiché queste derivano solo dall’esperienza. Relativamente alle idee complesse, invece, la mente dell’uomo è costruttiva. Accade che certe idee semplici si presentino costantemente raggruppate. Anche se questo gruppo non è un’idea semplice, bensì composta, l’uomo tende a ritenerlo un unicum. E’ vero che le qualità reali, che esistono al di fuori dell’esperienza, non possono esistere senza qualcosa che le sostenga; tuttavia, questo qualcosa rimane per noi completamente sconosciuto. Quello di “sostanza” è quindi un concetto oscuro, per niente chiaro e distinto come invece pensava Cartesio. E non soltanto è inconoscibile la sostanza corporea (res extensa), bensì anche quella spirituale (res cogitans).
  • L’inconoscibilità della sostanza non significa che essa non esiste. Tuttavia, proprio perché la sostanza è inconoscibile, viene meno il problema cartesiano di come la sostanza materiale possa influire sulla sostanza spirituale. Infatti, poiché non possiamo conoscere cosa è la sostanza in generale, non possiamo neanche sapere se la sostanza materiale influisca o no su quella spirituale, e viceversa.
  • La differenza di fondo che qui va delineandosi tra Cartesio e Locke è che al primo interessa conoscere, in modo rigoroso, fin dove si estende il sapere vero, l’episteme, indipendentemente dalle nostre esigenze pratiche, cioè indipendentemente dalla nostra volontà di evitare il dolore e di ottenere la felicita; mentre, nel secondo, l’interesse per ciò che possiamo veramente sapere non si spinge oltre il sapere che è collegato alle nostre esigenze pratiche. Per questo motivo, Locke nega che la conoscenza della natura “sia capace di divenire scienza” (cioè episteme), e afferma che la morale (la ricerca di ciò che è il sommo bene per l’uomo) <<è la scienza vera e propria e l’impegno dell’umanità in generale>>.
  • Dunque, per Cartesio la chiarezza e distinzione dell’idea di sostanza materiale sta alla base di tutte le idee chiare e distinte, la cui corrispondenza con la realtà esterna è garantita da Dio. Sennonché Locke mostra precisamente che l’idea di sostanza (in generale) non è un’idea chiara e distinta. Viene quindi meno la stessa condizione che in Cartesio sollecita l’intervento della garanzia divina: non esiste più ciò che la garanzia divina deve garantire. L’esistenza di Dio è sì dimostrabile, ma se per Cartesio questo punto era una tappa, per Locke è la meta. L’unico ponte verso la realtà esterna è la sensibilità, che però, come sopra abbiamo visto, non è per niente chiara, ossia non può sicuramente far parte dell’episteme.
  • In Locke sono presenti tre diverse formulazioni del principio di causalità:
  • 1. La prima è quella classica: dal nulla non si produce nulla.
    2. La seconda si riferisce alla capacità della realtà esterna di produrre idee nella mente. E’ appunto sulla base di questa seconda forma di causalità che può essere affermata l’esistenza della realtà corporea esterna alla mente.
    3. Tuttavia, quando Locke parla di causa, si riferisce a una terza forma del principio di causalità, cioè alla relazione tra due idee date nell’esperienza. L’idea di causa così intesa non è un’idea semplice, bensì complessa: precisamente, è un’idea complessa di relazione. E poiché le idee complesse non esistono nella realtà, ma solo nella mente, allora Locke afferma che la causalità non è nelle cose, ma è aggiunta da noi alla nostra percezione delle cose. Se per noi AàB, ciò non vale nella realtà, dove ci sono solo A e B.
    Tuttavia, analizzando solo questa terza forma del principio di causalità, Locke ha tralasciato le altre due, che quindi continuano ad agire fuori di ogni controllo concettuale del filosofo.
  • Stesse considerazioni vanno fatte per “spazio” e “tempo”. Anche queste due idee sono complesse, e quindi non sono qualità della realtà esterna, ma a quest’ultima sono attribuite arbitrariamente dalla mente.


  • BERKELEY: tra empirismo ed idealismo

    Non può esistere nella mente umana un contenuto positivo che abbia i caratteri contraddittori dell’idea astratta. Berkeley mostra che l’idea universale non è un’idea astratta, ma è un’idea concreta, cioè particolare, che la mente pone in relazione con tutte le altre idee particolari di un certo tipo, considerandola come loro segno o rappresentazione. Per Locke alle idee astratte non corrisponde nulla nella realtà esterna; Berkeley mostra che esse non esistono nemmeno nella mente.
    Il passo innanzi di Berkeley consiste nel modo in cui egli mostra che non esiste alcuna realtà materiale al di fuori della mente, ossia non percepita da questa. Si tratta di comprendere che “l’esistenza di un’idea consiste nell’essere percepita”. Affermare che delle cose non pensate esistono in sé stesse, assolutamente, cioè senza alcuna relazione al loro essere percepite, “implica una manifesta contraddizione. Per poter concepire gli oggetti della nostra mente esistono al di fuori della mente, “è necessario che voi possiate concepire che essi esistono non concepiti”, la qual cosa è impossibile. L’esistenza delle cose percepite dalla mente – le idee – consiste nel loro essere percepite. Il loro essere è “essere percepite” (esse est percipi). Anche per Cartesio e tutti i filosofi moderni che precedono Berkeley, l’esse delle idee è il loro percipi. La novità di Berkeley consiste nell’escludere che vi siano delle cose materiali (al di fuori di questo esse) che agiscono sulla mente e che sono i modelli di cui le idee sono copie. Segue da ciò che per Berkeley esiste solo la sostanza spirituale (res cogitans).
    Ma la negazione dell’astrazione (dell’idea astratta) consente a Berkeley di mostrare che le qualità primarie non possono avere una natura diversa dalle qualità secondarie. E’, infatti, impossibile percepire le cosiddette qualità primarie senza le cosiddette qualità secondarie: ad esempio, un’estensione senza colore. Se allora si afferma che le qualità primarie, a differenza delle secondarie, esistono nella realtà esterna, è perché si astrae l’aspetto quantitativo da quello qualitativo della realtà, e si ritiene che quell’aspetto, così separato, abbia una sua intelligibilità. Pensiero questo evidentemente contraddittorio. Anche le qualità primarie, quindi, come le secondarie, esistono solo all’interno della mente; per la qual cosa esse perdono il loro carattere di primarietà.
    Per Berkeley il fondamento del sapere umano resta l’io, l’indubitabilità della sua esistenza e di ciò che esso percepisce. Tuttavia, né la ragione né i sensi possono condurre all’affermazione di una realtà esterna. Ma questo di Berkeley non è scetticismo, poiché lo scetticismo è tale in quanto afferma l’infinita distanza tra l’io e la materia esterna, che esiste. E al contempo, Berkeley spiana il terreno a quella superiore forma di scetticismo che è la dottrina critica kantiana.
    Berkeley si rende conto che il dubbio cartesiano ha come proprio tacito fondamento l’esistenza di una materia esterna: giacché solo se si crede che una tale realtà esiste si può dubitare che le nostre percezioni le corrispondano.
    Un’altra conseguenza di tutto ciò è la tesi che la natura non appare come un nesso di cause e di effetti, ma piuttosto come un linguaggio che va interpretato.
    L’attività di cui la mente fa immediata esperienza non è altro che la propria: essa produce i pensieri, e non avverte alcuna attività nel loro contenuto, ossia nelle idee. Tuttavia, le idee percepite (le idee in genere!) non dipendono in alcun modo dalla mia volontà, ma devono avere una causa che le produce, e questa causa non può essere ovviamente un’idea. La causa di quelle idee sarà dunque una sostanza spirituale (che in Berkeley è l’unica sostanza!) attiva diversa dalla mia mente. Ovviamente, tale causa è Dio, in cui trovano ragione l’ordine e la magnificenza della natura.
  • Anticipando Hume, a differenza di Locke, Berkeley mostra che tra le idee non può esistere un rapporto causale. Ma anche Berkeley, come Locke e Cartesio, ritiene che le idee attualmente percepite dai sensi – le idee che “impressionano” i nostri sensi – sono l’effetto di un’azione esercitata sulla mente da parte della realtà esterna. L’innovazione di Berkeley è che questa realtà esterna non può essere altro che una mente, e precisamente la Mente infinita di Dio.


  • HUME: l’empirismo radicale

    Egli chiama “percezioni” ciò che Cartesio, Locke e Berkeley chiamavano “idee”. Quindi le distingue in due tipi:
    1) Le impressioni, ossia percezioni che hanno più forza, vivacità, intensità. Esse costituiscono l’ “esperienza”.
    2) Le idee, ossia percezioni più deboli e sbiadite.
    Ma le impressioni non solo sono più forti delle idee, ma anche ne costituiscono i modelli, gli originali, di cui tutte le idee sono immagini e copie più o meno adeguate: “Le nostre impressioni sono causa delle nostre idee, e non viceversa”. Il valore di una conoscenza è dunque verificabile riconducendole ai suoi legami con l’esperienza.
    Tutti i nostri ragionamenti sulla realtà si basano sulla relazione di causa ed effetto, cioè sul principio di causalità. Ma la conoscenza di questo principio non può essere raggiunta ragionando a priori. Essa invece deriva dall’esperienza. Senza basarci su osservazioni passate, dalla causa non conosceremo mai l’effetto. Proprio perché causa ed effetto sono eventi diversi, è impossibile che, conoscendo una certa causa, si riesca a conoscere a priori, ossia prescindendo dalle esperienze passate, quale effetto sarà prodotto da tale causa. E qual è dunque il fondamento di tutto ciò che abbiamo sperimentato in passato? Ebbene, si tratta di capire che se abbiamo sperimentato in passato che un evento A è seguito da un cert’altro evento B, nulla ci autorizza a concludere con necessità che accadrà sempre così. Una concomitanza di eventi non è una relazione necessaria di eventi. Il principio di causalità è dunque una congettura. La sua evidenza non ha un valore logico, bensì psicologico. Ovviamente, la critica al principio di causalità fa venire meno anche l’idea di Dio come causa delle nostre idee (Berkeley).
    È evidente che la negazione della realtà del principio di causalità implica una notevole riduzione del campo della ragione, e cioè dell’episteme. Sia la scienza sia la metafisica non hanno alcun valore. Solo che la scienza ha un’utilità pratica che la rende indispensabile. E poiché, secondo Hume, la nozione di sostanza poggia su quella di causalità (sostanza=ciò che non abbisogna d’altro; ciò che non è causato d’altro), allora neanche la sostanza esiste in natura.
    Le idee di causa e sostanza quali sono concepite dai filosofi, sono dunque senza senso; ma non è senza senso quella tendenza della natura umana che ci porta quasi irresistibilmente a credere nell’esistenza di quelle immagini che i filosofi interpretano poi come “causa” e “sostanza”. Senza queste immagini la vita sarebbe impossibile. La filosofia non ha il compito di estirpare tali finzioni, bensì quello di illuminare il loro carattere di finzioni, affinché l’uomo non divenga preda del fanatismo e dell’intolleranza.

    IMMANUEL KANT

    Il razionalismo parte dall’opposizione di certezza e verità e, attraversa la mediazione consentita dalla prova dell’esistenza di Dio, giunge all’identità mediata di certezza e verità.
    Kant, invece, dimostra nel modo più deciso e solido che le cose esterne alla mente non possono essere conosciute. Ossia, Kant mostra che l’opposizione fra certezza e verità è definitiva. Non che egli rinunci all’episteme; anzi, proprio per affermare potentemente l’episteme, bisogna affermare che la realtà esterna è inconoscibile, noumeno. Per Kant, la filosofia razionalistica è un “dogmatismo”, perché è la convinzione che il contenuto conosciuto possa essere l’insieme delle cose in sé stese. E quindi è la pretesa contraddittoria di poter uscire dal conoscere mediante il conoscere stesso. Contro il dogmatismo, il criticismo kantiano è la consapevolezza dei limiti della ragione.
    La cosa in sé è inconoscibile. E poiché la metafisica intende appunto essere una conoscenza della cosa in sé, ne segue che la metafisica è impossibile come scienza. La metafisica non appartiene all’episteme. Quest’ultima, tuttavia, neppure nel pensiero di Kant viene sminuita, e resta verità innegabile, seppur non più delle cose, ma dei fenomeni.
    Kant rileva che al concetto stesso di fenomeno deve corrispondere qualcosa che non è fenomeno. Il fenomeno è infatti il contenuto del conoscere e quindi non è niente in se stesso, al di fuori del nostro modo di rappresentare. Il fenomeno è rappresentazione, ossia riferimento a qualcosa che non è fenomeno: una cosa in sé. Senza la cosa in sé i fenomeni sarebbero rappresentazione di niente, quindi sarebbero niente.



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